LETTERA ENCICLICA
RITE EXPIATIS
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
NEL SETTIMO CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN FRANCESCO D'ASSISI
RITE EXPIATIS
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
NEL SETTIMO CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN FRANCESCO D'ASSISI
Venerabili Fratelli, salute e
Apostolica Benedizione.
Il grande Giubileo celebratosi in
Roma, e che è stato esteso al mondo intero per tutto il corso di quest’anno, è
servito di purificazione delle anime e di richiamo per tanti ad un più perfetto
tenore di vita. Ad esso sta ora per aggiungersi, quale compimento dei frutti o
già ricavati o sperati dall’Anno Santo, la solenne commemorazione con cui da
ogni parte i cattolici si accingono a celebrare il settimo centenario del
felice passaggio di San Francesco di Assisi dall’esilio terreno alla patria
celeste. Orbene, avendo l’immediato Nostro predecessore assegnato all’Azione
Cattolica quale Patrono questo Santo, donato dalla divina Provvidenza per la
riforma non solo della turbolenta età in cui egli visse ma della società
cristiana di ogni tempo, è ben giusto che quei Nostri figli, i quali lavorano
in tal campo secondo i Nostri ordinamenti, di concerto con la numerosa famiglia
francescana procurino di ricordare ed esaltare le opere, le virtù e lo spirito
del Serafico Patriarca. In tale opera, rifuggendo da quell’immaginaria figura
che del Santo volentieri si formano i fautori degli errori moderni o i seguaci
del lusso e delle delicatezze mondane, cercheranno di proporre alla fedele
imitazione dei cristiani quell’ideale di santità che egli in sé ritrasse
derivandolo dalla purezza e dalla semplicità della dottrina evangelica. Nostro
desiderio dunque è che le feste religiose e civili, le conferenze e i discorsi
sacri che si terranno in questo centenario mirino a che si celebri con
manifestazioni di vera pietà il Serafico Patriarca, senza farne un uomo né
totalmente diverso né soltanto dissimile da come lo formarono i doni di natura
e di grazia, dei quali si servì mirabilmente per raggiungere egli stesso e per
rendere agevole ai prossimi la più alta perfezione. Che se altri temerariamente
paragona tra di loro i celesti eroi della santità, destinati dallo Spirito
Santo chi a questa, chi a quella missione presso gli uomini — e tali paragoni,
frutto per lo più di passioni partigiane, non riescono di nessun vantaggio e
sono ingiuriosi verso Dio, autore della santità — tuttavia sembra potersi
affermare non esservi mai stato alcuno in cui brillassero più vive e più
somiglianti l’immagine di Gesù Cristo e la forma evangelica di vita che in
Francesco. Pertanto, egli che si era chiamato l’« Araldo del Gran Re »,
giustamente fu salutato quale « un altro Gesù Cristo », per essersi
presentato ai contemporanei e ai secoli futuri quasi Cristo redivivo; dal che
derivò che come tale egli vive tuttora agli occhi degli uomini e continuerà a
vivere per tutte le generazioni avvenire. Né è meraviglia, dato che i primi
biografi contemporanei al Santo, narrandone la vita e le opere, lo giudicarono
di una nobiltà quasi superiore all’umana natura; mentre quei Nostri
predecessori che trattarono familiarmente con Francesco, non dubitarono di
riconoscere in lui un aiuto provvidenziale inviato da Dio per la salvezza del
popolo cristiano e della Chiesa. E perché, nonostante il lungo tempo trascorso
dalla morte del Serafico, si accende di nuovo ardore l’ammirazione, non solo
dei cattolici, ma degli stessi acattolici, se non perché la sua grandezza
rifulge alle menti di non minore splendore oggi che nel passato, e perché
s’implora con ardente brama la forza della sua virtù, tuttora così efficace a
rimediare ai mali della società? Infatti, l’opera sua riformatrice tanto
profondamente penetrò nel popolo cristiano che, oltre a ristabilire la purità
della fede e dei costumi, fece sì che i dettami della giustizia e della carità
evangelica informassero più intimamente e regolassero la stessa vita sociale.
L’imminenza dunque di così grande
e felice avvenimento Ci consiglia, servendoci di voi, Venerabili Fratelli, che
della Nostra parola siete nunzi ed interpreti, di ridestare nel popolo
cristiano quello spirito francescano, che non differisce punto dal modo di
sentire e dalla pratica evangelica, richiamando alla memoria, in così opportuna
congiuntura di tempo, gl’insegnamenti e gli esempi della vita del Patriarca
d’Assisi. Ci piace così entrare come in gara di devozione coi Nostri
predecessori, i quali non si lasciarono mai sfuggire nessuna commemorazione
centenaria dei principali fasti della sua vita, senza proporne la celebrazione
ai fedeli illustrandola con l’autorità del magistero apostolico. A questo
proposito ben volentieri ricordiamo — e con Noi ricorderanno certo quanti sono
ormai innanzi cogli anni — l’ardore acceso nei fedeli di tutto il mondo verso
San Francesco e l’opera sua dall’Enciclica « Auspicato » scritta da Leone XIII
quarantaquattr’anni fa, nella ricorrenza del settimo centenario della nascita
del Santo; e come allora l’ardore concepito si manifestò in molteplici
dimostrazioni di pietà e in una felice rinnovazione di vita spirituale, così
non vediamo perché ugual esito non debba coronare la prossima celebrazione
ugualmente importante. Anzi, le presenti condizioni del popolo cristiano
lasciano sperare assai di più. Per una parte, infatti, nessuno ignora che oggi
i valori spirituali sono dalla massa meglio apprezzati e che i popoli, ammaestrati
dall’esperienza del passato a non dover attendersi pace e sicurezza se non
tornando a Dio, guardano ormai alla Chiesa cattolica come ad unica sorgente di
salvezza. D’altra parte, l’estensione a tutto il mondo dell’Indulgenza
Giubilare coincide felicemente con questa commemorazione centenaria, che non
può andare disgiunta dallo spirito di penitenza e di carità.
Sono ben note, Venerabili
Fratelli, le aspre difficoltà dei tempi in cui ebbe a vivere Francesco. È
verissimo che allora la fede era più profondamente radicata nel popolo, come
testimonia il sacro entusiasmo con cui non solo i soldati di professione, ma
gli stessi cittadini di ogni classe portarono le armi in Palestina per liberare
il Santo Sepolcro. Tuttavia nel campo del Signore si erano man mano infiltrate
e serpeggiavano eresie, propagate o da eretici manifesti o da occulti
ingannatori, i quali, ostentando austerità di vita e una fallace apparenza di
virtù e disciplina, facilmente trascinavano le anime deboli e semplici;
pertanto si andavano spargendo tra le moltitudini perniciose faville di
ribellione. E se alcuni si credettero, nella loro superbia, chiamati da Dio a
riformare la Chiesa, alla quale imputavano le colpe dei privati, a non lungo
andare, ribellandosi all’insegnamento e all’autorità della Santa Sede,
manifestarono apertamente da quali intenti fossero animati; ed è notorio che la
maggior parte di costoro ben presto finirono nella libidine e nella lussuria e
persino nel turbamento dello Stato, scuotendo i fondamenti della religione,
della proprietà, della famiglia e della società. In una parola, avvenne allora
ciò che spesso si vide qua e là nel corso dei secoli; cioè, la ribellione mossa
contro la Chiesa andava di pari passo con la ribellione contro lo Stato,
aiutandosi a vicenda. Ma quantunque la fede cattolica vivesse nei cuori o
intatta o non del tutto oscurata, venendo però meno lo spirito evangelico la
carità di Cristo si era tanto intiepidita nella società umana da parere quasi
estinta. Infatti, per tacere delle lotte impegnate, da una parte dai fautori
dell’Impero, dall’altra dai fautori della Chiesa, le città italiane erano
lacerate da guerre intestine, o perché le une volessero reggersi liberamente da
sé sottraendosi alla signoria d’un solo, o perché le più forti volessero sottomettere
a sé le più deboli, o per le lotte di supremazia tra i partiti di una stessa
città; di tali contese erano frutto amaro stragi orrende, incendi, devastazioni
e saccheggi, esilii, confische di beni e di patrimoni. Iniqua era poi la sorte
di moltissimi, mentre tra signori e vassalli, tra maggiori e minori, come si
diceva, tra padroni e coloni, correvano relazioni troppo aliene da ogni senso
di umanità, e il popolo imbelle veniva impunemente vessato e oppresso dai
potenti. Coloro poi che non appartenevano alla più misera categoria dei plebei,
lasciandosi trasportare dall’egoismo e dall’avidità di possedere, erano
stimolati da un’insaziabile ingordigia di ricchezze; senza badare alle leggi
qua e là promulgate contro il lusso, facevano ostentatamente pompa di un pazzo
splendore di abiti, di banchetti e di festini di ogni genere; povertà e poveri
disprezzati; i lebbrosi, allora così frequenti, aborriti e trascurati nella
loro segregazione; e ciò ch’è peggio, da tanta avidità di beni e di piaceri non
andavano nemmeno esenti — benché molti del clero fossero commendevoli per
austerità di vita — coloro che più scrupolosamente avrebbero dovuto
guardarsene. Era perciò invalso l’uso di accaparrarsi e di ammucchiare ciascuno
grandi e lauti guadagni da qualunque parte si potesse; non solo dunque con
l’estorsione violenta del danaro o con l’esosità dell’usura, ma molti
aumentavano ed impinguavano il patrimonio col mercimonio delle cariche
pubbliche, degli onori, dell’amministrazione della giustizia e persino dell’impunità
procurata ai colpevoli. La Chiesa non tacque, né risparmiò le punizioni; ma con
qual giovamento, se perfino gli Imperatori, con pubblico cattivo esempio, si
attiravano gli anatemi della Santa Sede e contumaci li disprezzavano? Anche
l’istituzione monastica, che pure aveva condotto a maturità tanto lieti frutti,
offuscata ora di polvere mondana, non era più così in grado di resistenza e di
difesa; e se il sorgere di nuovi Ordini religiosi arrecò un po’ di aiuto e di
forza alla disciplina ecclesiastica, occorreva però molto più fervida fiamma di
luce e di carità per riformare la travagliata società umana.
Orbene, ad illuminare siffatta
società e a ricondurla al puro ideale della sapienza evangelica, ecco apparire
per divino consiglio San Francesco di Assisi, il quale, come cantò l’Alighieri
[1],
rifulse qual Sole, o come aveva già scritto, servendosi di simile figura,
Tommaso da Celano, « brillò come fulgida stella nella notte caliginosa e
quasi mattino che si distende sulle tenebre » [2].
Giovane d’indole esuberante e
fervida, amante del lusso nel vestire, usava invitare a splendidi banchetti gli
amici che si era scelto tra i giovani eleganti ed allegri e girava per le
strade lietamente cantando, pur allora però facendosi notare per integrità di
costumi, castigatezza nel conversare e disprezzo delle ricchezze. Dopo la
prigionia di Perugia e le noie di una malattia, sentendosi non senza meraviglia
intimamente trasformato, tuttavia, come se volesse sfuggire dalle mani di Dio,
andò nella Puglia per compiervi imprese di valore. Ma durante il cammino, da un
chiaro comando divino si sentì ordinare di ritornarsene ad Assisi per
apprendere che cosa dovesse poi fare. Indi, dopo molti ondeggiamenti di dubbio,
per divina ispirazione e per aver inteso alla messa solenne quel passo
evangelico che riguarda la missione e il genere di vita apostolico, comprese di
dover vivere e servire a Cristo « secondo la forma del Santo Vangelo ».
Fin d’allora pertanto cominciò a congiungersi strettamente a Cristo e a
renderglisi simile in tutto; e « tutto il suo impegno, sia pubblico sia
privato, si rivolse alla croce del Signore; e fin dai primi tempi in cui
cominciò a militare per Cristo, rifulsero intorno a lui i diversi misteri della
croce » [3].
E veramente egli fu buon soldato e cavaliere di Cristo per nobiltà e generosità
di cuore; tanto che per non discordare in nulla, né egli né i suoi discepoli,
dal suo Signore, oltre che ricorrere come ad oracolo al libro dei Vangeli
quando doveva prendere una deliberazione, diligentemente conformò la
legislazione degli Ordini da lui fondati con lo stesso Vangelo e la vita
religiosa dei suoi con la vita apostolica. Perciò in fronte alla Regola
giustamente scrisse: «Questa è la vita e la regola dei frati Minori, di
osservare cioè il santo Vangelo di nostro Signor Gesù Cristo» [4].
Ma per stringere più dappresso l’argomento, vediamo con quale preclaro
esercizio di virtù perfette si apparecchiasse Francesco a servire ai consigli
della misericordia divina e a rendersi strumento idoneo della riforma della
società.
Anzitutto, se non è difficile
immaginare con la mente, crediamo impresa assai ardua descrivere a parole di
quale amore avvampasse per la povertà evangelica. Nessuno ignora com’egli fosse
per indole portato a soccorrere i poveri, e come, al dire di San Bonaventura,
fosse pieno di tanta benignità, che « non sordo uditore del Vangelo » aveva
stabilito di non mai negare soccorso ai poveri, massime se questi nel chiedere
« allegassero l’amor di Dio» [5];
ma la grazia spinse al culmine della perfezione la natura. Pertanto, avendo una
volta respinto un povero, subito pentitosene, per intimo impulso divino si
diede tosto a ricercarlo e ad alleviarne la miseria con ogni bontà ed
abbondanza; un’altra volta, andandosene con una comitiva di giovani dopo un
allegro convito cantando per la città, all’improvviso si fermò come attratto
fuori di sé da una soavissima dolcezza spirituale, e tornato in se stesso ai
compagni che l’interrogavano se allora avesse pensato a prender moglie, subito
rispose con calore che avevano indovinato, perché egli veramente si proponeva
di condurre una sposa, di cui non si troverebbe altra o più nobile o più ricca
o più bella; intendendo con tali parole o la povertà o una religione che
poggiasse specialmente sulla professione della povertà. Egli infatti da Cristo
Signore, che si fece povero per noi, pur essendo ricco, affinché noi
divenissimo ricchi della sua povertà [6],
apprese quella divina sapienza, che non potrà mai essere cancellata dai sofismi
della sapienza umana, e che sola può santamente rinnovare e restaurare tutto.
Certo Gesù aveva detto: « Beati i poveri in spirito » [7].
« Se vuoi essere perfetto, va, vendi quanto hai e donalo ai poveri, e avrai
un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi » [8].
Siffatta povertà che consiste nella rinuncia volontaria di ogni cosa, fatta per
amore e per ispirazione divina e che è del tutto contraria alla povertà forzata,
arcigna e affettata di alcuni filosofi antichi, fu da Francesco abbracciata con
tanto affetto, che la chiamava con riverente amore signora, madre e sposa. In
proposito scrive San Bonaventura: «Nessuno fu mai così avido dell’oro
com’egli della povertà, né più geloso nella custodia di un tesoro quanto egli
di questa perla evangelica » [9]
E lo stesso Francesco, raccomandando e prescrivendo ai suoi nella Regola
dell’Ordine il particolare esercizio di questa virtù, manifesta la stima
ch’egli ne aveva e quanto la amasse con queste chiarissime parole: «Questa è
la sublimità dell’altissima povertà che costituisce voi carissimi fratelli
miei, eredi e re del regno dei cieli; vi fece poveri di cose, vi sublimò di
virtù. Questa sia la vostra porzione, a cui aderendo totalmente, null’altro
vogliate avere in eterno sotto il cielo per il nome del Signor nostro Gesù
Cristo » [10].
La ragione per cui Francesco amò particolarmente la povertà, fu perché la
considerava come familiare della Madre di Dio, e perché Gesù Cristo sul legno
della croce, più che familiare, se la scelse a sposa, benché poi dagli uomini
fosse dimenticata e riuscisse al mondo troppo amara ed importuna. Al che spesso
ripensando, soleva prorompere in gemiti e lacrime. Orbene, chi non si
commuoverà a questo insigne spettacolo di un uomo, che tanto s’innamorò della
povertà da parere agli antichi compagni di divertimento e a molti altri uscito
di senno? Che dire poi dei posteri, i quali, anche se lontanissimi
dall’intelligenza e dalla pratica della perfezione evangelica, furono compresi
per sì ardente amante della povertà di un’ammirazione, che ognora aumentando
riesce ancora a colpire gli uomini dell’età nostra? Questo senso di ammirazione
dei posteri precorse l’Alighieri con quel canto dello sposalizio tra Francesco
e la Povertà [11],
dove non sapresti se più ammirare la grandiosa sublimità delle idee o la
dolcezza e l’eleganza del verso.
Ma l’alto concetto e il generoso
amore che della povertà nutrivano la mente e il cuore di Francesco, non
potevano restringersi soltanto alla rinunzia dei beni esterni. Chi infatti
riuscirebbe ad acquistare, sull’empio del Signor nostro Gesù, la vera povertà,
se non si facesse povero in ispirito e piccolo per mezzo della virtù
dell’umiltà? Ciò ben comprendendo Francesco, non disgiungendo mai l’una
dall’altra virtù, ambedue così insieme calorosamente saluta: « Santa Signora
povertà, il Signore ti salvi con la sorella santa umiltà… La santa povertà
confonde ogni cupidigia e avarizia e ansietà di questo secolo. La santa umiltà
confonde la superbia e tutti gli uomini di questo mondo e le cose tutte che
sono nel mondo » [12].
Così per dipingere Francesco in una parola, l’autore dell’aureo libro «Dell’Imitazione
di Cristo », lo chiama « l’umile ». «Quale è ciascuno innanzi ai
tuoi occhi (o Signore), tanto vale e non più, dice l’umile San Francesco »
[13]. Egli ebbe infatti soprattutto a
cuore di comportarsi con umiltà, come il minimo e ultimo di tutti. Perciò, fin
dal principio della sua conversione, desiderava con ardore di essere schernito
e deriso da tutti; e poi, sebbene fondatore, legislatore e Padre dei Frati
Minori, si prendeva qualcuno dei suoi per superiore e padrone, da cui
dipendere; indi, appena fu possibile, senza lasciarsi piegare da preghiere e da
pianti dei suoi, volle deporre il governo supremo dell’Ordine « per
osservare la virtù della santa umiltà » e restare « quindi innanzi
suddito fino alla morte, vivendo più umilmente che qualsiasi altro » [14];
offertagli spesso da Cardinali e da magnati ospitalità generosa e
splendidissima, la ricusava recisamente; mentre agli altri mostrava maggiore
stima e rendeva ogni onore, metteva se stesso in dispregio fra i peccatori,
facendosi come uno di loro. Si credeva infatti il più grande peccatore, usando
dire che se la misericordia usatagli da Dio fosse stata fatta a qualche altro
scellerato, questi sarebbe riuscito migliore dieci volte tanto, e a Dio solo
doversi quindi attribuire, perché da Dio unicamente derivato, quanto si trovava
in lui di bello e di buono. Per questa ragione occultava con ogni studio i
privilegi e carismi che potevano procacciargli la stima e la lode degli uomini,
e anzitutto le stimmate del Signore impresse nel suo corpo; e se talora in
privato o in pubblico veniva lodato, non solo si reputava e protestava degno di
disprezzo e vituperio, ma se ne contristava, tra sospiri e lamenti, con
incredibile rammarico.
Che dire poi dell’essersi stimato
tanto indegno da non volere ordinarsi sacerdote? Su questo medesimo fondamento
dell’umiltà egli volle che si appoggiasse e consolidasse l’Ordine dei Minori. E
se con esortazioni di una sapienza meravigliosa ammaestrava ripetutamente i
suoi come non potessero gloriarsi di nulla, e molto meno delle virtù e grazie
celesti, ammoniva soprattutto, e secondo l’opportunità rimproverava quei frati
che per i loro officii andavano esposti al pericolo di vanagloria e di
superbia, come i predicatori, i letterati, i filosofi, i superiori dei conventi
e delle province. Sarebbe lungo scendere ai particolari, ma basti questo solo:
San Francesco dagli esempi e dalle parole di Cristo [15]
derivò l’umiltà nei suoi, quale distintivo proprio dell’Ordine; volle infatti
che i suoi fossero chiamati « minori », e « ministri » fossero
detti tutti i prelati del suo Ordine, e « ciò per usare il linguaggio del
vangelo ch’egli aveva promesso di osservare, sia perché suoi discepoli dallo
stesso nome capissero di essere venuti alla scuola dell’umile Cristo per
imparare l’umiltà » [16].
Abbiamo veduto come il Serafico
per l’ideale stesso che aveva in mente della povertà più perfetta, si faceva
tanto piccolo ed umile da ubbidire con semplicità di bambino ad un altro o
meglio, possiamo aggiungere, a quasi tutti, perché chi non rinnega se stesso e
non rinunzia alla propria volontà, certo non può dirsi o che si sia spogliato
di tutte le cose, o che possa divenire umile di cuore. San Francesco, pertanto,
col voto di obbedienza consacrò di buon animo e sottomise interamente al
Vicario di Gesù Cristo la libertà della volontà, questo dono sopra tutti
eminente da Dio conferito alla natura umana. Oh, quando male fanno e quanto
vanno lungi dalla cognizione dell’Assisiate coloro che, per servire alle loro
fantasie ed errori, s’immaginano, (cosa incredibile!) un Francesco intollerante
della disciplina della Chiesa, noncurante degli stessi dogmi della Fede,
precursore anzi e banditore di quella molteplice e falsa libertà, che si
cominciò ad esaltare sul principio dell’età moderna, e tanto disturbo recò alla
Chiesa ed alla società civile. Ora, con quanta intimità aderisse alla gerarchia
della Chiesa, a questa Sede Apostolica e agli insegnamenti di Cristo, il
banditore del gran Re può bene insegnare nei suoi mirabili esempi ai cattolici
ed agli acattolici tutti. Consta infatti dai documenti storici di quell’età, i
più degni di fede, che egli « venerava i sacerdoti e con estremo affetto
abbracciava tutto l’Ordine ecclesiastico » [17];
da « uomo cattolico e tutto apostolico » insisteva principalmente, nella
sua predicazione, « che si mantenesse inviolabile la fedeltà alla Chiesa, e
per la dignità del Sacramento del Signore, che si compie per ministero dei
sacerdoti, si tenesse in riverenza somma l’ordine sacerdotale. E parimenti
insegnava doversi in gran maniera riverire i maestri della legge divina e tutti
gli ordini del Clero » [18].
E ciò che insegnava dal pulpito al popolo, inculcava molto più caldamente ai
suoi frati, cui soleva anche avvisare di tempo in tempo — come nel suo famoso
testamento e in punto di morte li ammonì con gran forza — che nell’esercizio
del sacro ministero obbedissero umilmente ai prelati ed al clero, e si
portassero con essi quali figliuoli della pace.
Ma il punto più capitale in
questo argomento è che appena il Serafico Patriarca ebbe formata e scritta la
Regola propria del suo Ordine, non indugiò un istante a presentarla
personalmente, con i primi undici discepoli, ad Innocenzo III perché
l’approvasse. E quel Pontefice d’immortale memoria, mirabilmente commosso dalle
parole e dalla presenza dell’umilissimo Poverello divinamente ispirato,
abbracciò con grande amore Francesco, sancì con l’autorità apostolica la Regola
da lui presentata ed ai nuovi operai diede inoltre la facoltà di predicare la
penitenza. A questa Regola poi di poco ritoccata, come ci attesta la storia,
Onorio III aggiunse nuova conferma su preghiera di Francesco. Il Serafico Padre
volle che la Regola e la vita dei Frati Minori fosse questa: osservare « il
santo Vangelo del Signor Nostro Gesù Cristo vivendo in obbedienza, senza cosa
propria e in castità », né già a capriccio proprio o secondo una propria
interpretazione, ma al cenno dei Romani Pontefici, canonicamente eletti. Quanti
poi anelano a « ricevere questa vita… siano esaminati diligentemente dai
Ministri intorno alla fede cattolica ed ai sacramenti della Chiesa, e se
credono tutte queste cose e intendono confessarle e osservarle fermamente sino
alla fine; coloro poi che siano incorporati nell’Ordine, non se ne allontanino
per nessun conto « secondo il mandato del Signor Papa ». Ai chierici si
prescrive che celebrino i divini offici, « secondo l’Ordine della Chiesa
Romana »; ai frati in generale, che non predichino nel territorio di un
vescovo senza suo comando, e non entrino, anche per causa di ministero, nei
conventi delle religiose senza facoltà speciale dell’Apostolica Sede. Né minore
riverenza e docilità verso la Sede Apostolica ci mostrano le parole che usa
Francesco nel prescrivere che si domandi un Cardinale protettore: « Per
obbedienza ingiungo ai Ministri che domandino al Signor Papa qualcuno dei
Cardinali della Santa Chiesa Romana che sia guida, protettore e correttore di
questa Fratellanza; affinché, sempre subordinati e soggetti ai piedi della
stessa Santa Chiesa Romana, stabili nella fede cattolica, osserviamo il santo
Vangelo del Signor nostro Gesù Cristo » [19].
Ma non si può tacere di quella « bellezza
e mondezza di onestà » che il Serafico « singolarmente amava », cioè
di quella castità di anima e di corpo che egli custodiva e difendeva con
l’asperrima macerazione di se stesso. E l’abbiamo pure veduto giovane, festoso
ed elegante, aborrire da qualsiasi bruttura anche di parole. Ma quando poi
rigettò i vani piaceri del secolo, cominciò tosto a reprimere con ogni rigore i
sensi, e se mai gli accadeva di sentirsi agitato da moti sensuali, egli non
esitava o a ravvolgersi fra gli spinosi roveti, o ad immergersi nelle gelide
acque del più crudo inverno.
È, infatti, noto che il nostro
Santo, studiandosi di richiamare gli uomini a conformare la loro vita agli
insegnamenti del Vangelo, soleva esortare tutti « ad amare e temere Dio ed a
far penitenza dei proprii peccati » [20],
ed a tutti si faceva predicatore di penitenza col suo stesso esempio. Infatti
cingeva alle carni un cilicio, vestiva una povera e ruvida tonaca, andava a
piedi nudi, prendeva riposo appoggiando il capo a una pietra o ad un tronco, si
nutriva quel tanto solo che bastasse a non morire d’inedia, e al suo cibo
mescolava acqua e cenere per togliergli ogni gusto; anzi, passava quasi
interamente digiuno la maggior parte dell’anno. Inoltre, sia che fosse sano o
infermo, trattava con dura asprezza il suo corpo, ch’egli soleva paragonare ad
un asinello; e non s’indusse a concedere al suo corpo qualche sollievo o
riposo, neanche quando, negli ultimi anni della sua vita, fatto a Cristo
similissimo per le Stimmate, quasi inchiodato alla Croce, era tormentato da
molte infermità. Né trascurò di avvezzare i suoi all’austerità ed alla
penitenza, benché — ed in ciò soltanto « la lingua fu diversa dall’opera del
santissimo patriarca » [21]
— li ammonisse di moderare l’eccessiva astinenza e afflizione del corpo.
Chi non vede quanto
manifestamente tutto ciò procedesse dal medesimo fonte della carità divina?
Infatti, come scrive Tommaso da Celano [22],
« ardendo sempre di amore divino, bramava di dar mano ad opere forti, e
camminando di gran cuore nella via dei comandamenti divini, anelava a
raggiungere la somma perfezione ». Secondo la testimonianza di San
Bonaventura, « tutto quanto… quasi brace ardente, sembrava consumarsi nella
fiamma dell’amore divino » [23];
onde vi erano taluni che si scioglievano in lacrime « vedendolo sì
rapidamente levato a tanta ebbrezza di divino amore » [24].
E siffatto amore di Dio si effondeva talmente verso il prossimo, che egli,
vincendo se stesso, abbracciava con particolare tenerezza i poveri, e tra essi
i più miseri, i lebbrosi, dai quali aveva tanto aborrito nella sua giovinezza;
e dedicò ed obbligò tutto se stesso e i suoi alle loro cure e al loro servizio.
Né minor carità fraterna volle regnasse tra i suoi discepoli: onde la
francescana famiglia sorse come « un nobile edificio di carità, nel quale
pietre vive, radunate da ogni parte del mondo, vengono edificate in abitacolo
dello Spirito Santo » [25].
Ci è piaciuto, Venerabili Fratelli,
trattenervi alquanto più a lungo nella contemplazione di queste altissime
virtù, appunto perché, nei nostri tempi, molti, infetti dalla peste del
laicismo, hanno l’abitudine di spogliare i nostri eroi della genuina luce e
gloria della santità, per abbassarli ad una specie di naturale eccellenza e
professione di vuota religiosità, lodandoli e magnificandoli soltanto come
assai benemeriti del progresso nelle scienze e nelle arti, delle opere di
beneficenza, della patria e del genere umano. Non cessiamo perciò dal
meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e
anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle
ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le
danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o
rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa. Molto a proposito cade qui
quell’ammonimento: « A chi piace il merito del Santo, deve altresì piacere
l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel che
loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei Santi,
deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita » [26].
Pertanto Francesco,
agguerrito dalle forti virtù che abbiamo ricordate, è provvidenzialmente
chiamato all’opera di riforma e di salvezza dei suoi contemporanei e di aiuto
per la Chiesa universale.
Nella chiesa di San Damiano, dove
era solito pregare con gemiti e sospiri, per tre volte aveva udito scendere dal
cielo una voce: «Va’, Francesco, restaura la mia casa che cade » [27].
Egli, per quella profonda umiltà che lo faceva credere a se stesso incapace di
compiere qualsiasi opera grandiosa, non ne comprese l’arcano significato; ma
bene lo scoprì Innocenzo III chiaramente argomentando quale fosse il disegno
del misericordiosissimo Iddio da una visione miracolosa in cui gli si presentò
Francesco in atto di sostenere con le sue spalle il tempio cadente del
Laterano. Il Serafico Santo, dunque, fondati due Ordini, uno per uomini,
l’altro per donne, aspiranti alla perfezione evangelica, prese a percorrere
rapidamente le città italiane, annunziando, o da se stesso o per mezzo dei
primi discepoli che si era associati, e predicando al popolo la penitenza, in
un modo di dire breve e infocato, raccogliendo da tal ministero, e con la
parola e con l’esempio, frutti incredibili. In tutti i luoghi ove egli si
recava a compiervi Ministeri apostolici, si facevano incontro a Francesco il
clero e il popolo, processionalmente, tra suoni di campane e canti popolari,
agitando in aria rami di olivo. Persone di ogni età, sesso e condizione gli si
affollavano attorno, e assiepavano di giorno e di notte la casa ove abitava,
per vederlo uscire, toccarlo, parlargli, ascoltarlo. Nessuno, per quanto
invecchiato in una continua consuetudine di vizi e di peccato, poteva resistere
alla sua predicazione. Quindi moltissime persone, anche di età matura,
abbandonavano a gara tutti i beni terreni per amore della vita evangelica, e
interi popoli d’Italia, rinnovati nei costumi, si ponevano sotto la direzione
di Francesco. Anzi, era cresciuto a dismisura il numero dei suoi figliuoli, e
tale era l’entusiasmo di seguire le sue orme suscitato ovunque, che lo stesso
Serafico Patriarca spesso era costretto a dissuadere e a stornare dal proposito
di lasciare il secolo uomini e donne già disposti anche a rinunziare all’unione
coniugale e alla convivenza domestica. Intanto il desiderio che principalmente
animava quei nuovi predicatori di penitenza era di ricondurre la pace fra
individui, famiglie, città e terre, sconvolte e insanguinate da discordie
interminabili. E si deve attribuire alla virtù sovrumana dell’eloquenza di
quegli uomini rozzi, se ad Assisi, ad Arezzo, a Bologna e in tante altre città
e terre si poté efficacemente provvedere ad una generale pacificazione,
confermata talvolta con solenni convenzioni. A tale opera di generale
pacificazione e riforma molto giovò il Terz’Ordine: istituzione che, con
esempio nuovo fino allora, mentre ha lo spirito di Ordine religioso, non ha
obbligo di voti, e si propone di somministrare a tutti, uomini e donne anche
viventi nel secolo, i mezzi non solo di osservare la legge di Dio, ma di
raggiungere la perfezione cristiana. Le Regole del nuovo sodalizio si riducono
ai seguenti capi: Non accettare se non persone di schietta fede cattolica, e
pienamente ossequenti alla Chiesa; modo di accettare nell’Ordine i candidati
dell’uno e dell’altro sesso; ammissione alla professione, compiuto l’anno di
noviziato, previo il consenso della moglie per il marito e del marito per la
moglie; rispetto dell’onestà e della povertà nell’uso degli abiti, e modestia
degli abbigliamenti muliebri; che i Terziari si astengano dai conviti, dagli
spettacoli immodesti e dai balli; astinenza e digiuno; confessione da farsi tre
volte l’anno, e altrettante la comunione, avendo cura di porsi in pace con
tutti e di restituire la roba altrui; non indossare le armi se non in difesa
della Chiesa Romana, della fede cristiana, e della propria patria, oppure con
il consenso dei propri ministri; recita delle ore canoniche ed altre preci;
dovere di dettare il legittimo testamento prima che scada un trimestre
dall’entrata nell’Ordine; ricondurre quanto più presto si può la pace dei
confratelli fra loro o con esterni, ove fosse turbata; che fare nel caso che i
diritti o i privilegi del sodalizio fossero impugnati o violati; non prestar
giuramento se non per urgente necessità riconosciuta dalla Sede Apostolica.
Alle norme riferite se ne aggiungono altre di non minore importanza sul dovere
di ascoltare la messa, sulle adunanze da convocare in tempi determinati, sulle
sovvenzioni da prestarsi da ciascuno secondo le proprie forze in aiuto dei
poveri e specialmente degli infermi e per tributare gli estremi offici ai soci
defunti, sul modo di farsi scambievoli visite in caso di malattia, od anche di
riprendere e ricondurre sulla buona via coloro che cadono e sono ostinati nel
peccato, sul dovere di non ricusare gli uffici e i ministeri che vengono
assegnati, e non adempierli trascuratamente; sulla risoluzione delle liti.
Ci siamo trattenuti su queste
cose partitamente, affinché si veda come Francesco, sia col vittorioso
apostolato suo e dei suoi, sia con l’istituzione del Terz’Ordine, gettò le
fondamenta di un rinnovamento sociale operato radicalmente in conformità dello
spirito evangelico. Omettendo pure ciò che riguarda, in tali Regole, il culto e
la formazione spirituale che pure sono di primaria importanza, ognuno vede come
dalle altre prescrizioni dovesse risultare tale ordinamento di vita privata e
pubblica da formare del civile consorzio non soltanto una specie di convivenza
fraterna, consolidata dalla pratica della perfezione cristiana, ma anche uno
scudo al diritto dei miseri e dei deboli contro gli abusi dei ricchi e dei
potenti, senza pregiudizio dell’ordine e della giustizia. Dalla consociazione
infatti dei Terziari col clero, necessariamente risultava la felice conseguenza
che i nuovi soci venivano a partecipare delle medesime esenzioni e immunità
delle quali questo godeva. Così fin d’allora i Terziari non prestarono più il
così detto solenne giuramento di vassallaggio, né venivano chiamati ai servizi
militari o di guerra, né indossavano armi, perché essi alla legge feudale
opponevano la regola del Terz’Ordine, alla condizione servile l’acquisita
libertà. Ed essendo perciò molto vessati da chi aveva tutto l’interesse a far
sì che le cose tornassero alle condizioni di prima, essi ebbero a loro
difensori e patroni i Pontefici Onorio III e Gregorio IX, i quali sventarono
quegli ostili attentati, anche comminando severe pene. Da qui quell’impulso di
una salutare riforma dell’umana società; da qui la vasta espansione e
l’incremento preso fra le nazioni cristiane dalla novella istituzione che aveva
Francesco quale Padre e istitutore, ed insieme con lo spirito di penitenza il
rifiorire dell’innocenza della vita; da qui quell’ardente fervore, onde fu dato
vedere, non solo Pontefici, Cardinali e Vescovi, ricevere le insegne del Terz’Ordine,
ma anche re e prìncipi, fra cui alcuni anche saliti in gloria di santità, i
quali con lo spirito francescano s’imbevevano della evangelica sapienza; da qui
le più elette virtù ritornate in pregio ed onore presso la società civile; da
qui in una parola il mutarsi « la faccia della terra ».
Senonché Francesco « uomo
cattolico e tutto apostolico », come attendeva in modo mirabile alla
riforma dei fedeli, così si adoperava personalmente ed ordinava ai suoi
discepoli di impiegarsi con alacrità alla conversione degli infedeli alla fede
e alla legge di Cristo. Non occorre con molte parole rammentare una cosa a
tutti ben nota, come cioè il Nostro, mosso dall’ardente brama di propagare il
Vangelo e sostenere il martirio, non esitasse a recarsi in Egitto ed ivi
comparire, animoso e ardito, alla presenza del Sultano. E nei fasti della
Chiesa non sono registrati con parole di sommo onore quei numerosi banditori
del Vangelo i quali sin dai primordi, e per così dire nella primavera
dell’Ordine minoritico, trovarono il martirio in Siria e nel Marocco? Tale
apostolato nel corso dei tempi fu poi dalla molteplice famiglia francescana
proseguito con tanto zelo, e non senza largo spargimento di sangue, che sono
moltissime le regioni d’infedeli le quali, per disposizione dei Romani
Pontefici, si trovano affidate alle loro cure.
Nessuno vorrà quindi
meravigliarsi che, per tutto il passato periodo di ben settecento anni, la
memoria dei tanti benefizi da lui derivati né in alcun tempo né in alcun luogo
si sia mai potuta cancellare. Anzi, vediamo come la vita e l’opera di lui, la
quale non da lingua umana, ma, come scrive l’Alighieri, « meglio in gloria
del ciel si canterebbe », di secolo in secolo si è imposta e tramandata al
culto ed all’ammirazione in modo che egli non solo grandeggia alla luce del
mondo cattolico per l’insigne gloria della santità, ma splende anche con un
certo culto e gloria civile onde il nome di Assisi è divenuto familiare ai
popoli di tutto il mondo. Era passato infatti poco tempo dalla sua morte, che presero
a sorgere in ogni parte, per voto di popolo, chiese dedicate in onore del
Serafico Padre, mirabili per magistero di architettura e di arte; e fra i più
insigni artefici fu come una gara a chi fra loro riuscisse a ritrarre con
maggior perfezione e bellezza l’immagine e le gesta di Francesco in pittura, in
scultura, in intaglio, in mosaico. Così a Santa Maria degli Angeli, in quella
pianura, dalla quale Francesco « povero ed umile entrò ricco nel cielo
», come al luogo del sepolcro glorioso, sul colle di Assisi, concorrono, e
d’ogni parte affluiscono pellegrini, quando alla spicciolata, quando a schiere,
per ravvivare insieme, a vantaggio dell’anima, la memoria di un così gran
Santo, ed insieme ammirare quegli immortali monumenti di arte. Inoltre, a cantare
l’Assisiate sorse, come abbiamo veduto, un lodatore che non ha pari, Dante
Alighieri, e dopo di lui non mancarono altri che illustrarono le lettere in
Italia e altrove, esaltando la grandezza del Santo. Ma specialmente ai nostri
giorni, studiati più a fondo dagli eruditi gli argomenti francescani e
moltiplicate in gran numero le opere a stampa in varie lingue, e ridestati
gl’ingegni dei competenti a compiere lavori ed opere artistiche di gran pregio,
l’ammirazione verso San Francesco divenne fra i contemporanei smisurata,
quantunque non sempre bene intesa. Così altri presero ad ammirare in lui
l’indole naturalmente portata a manifestare poeticamente i sentimenti
dell’animo, e il «Cantico » famoso divenne la delizia della erudita
posterità, la quale vi ravvisa un vetustissimo saggio del volgare nascente.
Altri rimasero incantati dal suo gusto della natura, ond’egli sembra preso dal
fascino non solo della natura inanimata, del fulgore degli astri, dell’amenità
dei monti e delle valli umbre, ma, al pari di Adamo nell’Eden prima della
caduta, discorre con gli animali stessi, quasi legato ad essi da una certa
fratellanza, e li rende obbedientissimi ai suoi cenni. Altri ne esaltano l’amor
di patria, perché a lui deve l’Italia nostra, che vanta il fortunato onore d’avergli
dati i natali, una fonte di benefizi più copiosa che qualsiasi altro paese.
Altri infine lo celebrano per quella sua veramente singolare comunanza di
amore, che tutti gli uomini unisce. Tutto ciò è vero, ma è il meno, e da
doversi intendere in retto senso: poiché chi si fermasse a ciò come alla cosa
più importante, o volesse torcerne il senso a giustificare la propria
morbidezza, a scusare le proprie false opinioni, a sostenere qualche suo
pregiudizio, è certo che guasterebbe la genuina immagine di Francesco. Infatti,
da quella universalità di virtù eroiche delle quali abbiamo fatto breve cenno,
da quell’austerità di vita e prediazione di penitenza, da quella molteplice e
faticosa azione per il risanamento della società, risalta in tutta la sua interezza
la figura di Francesco, proposto non tanto all’ammirazione, quanto
all’imitazione del popolo cristiano. Essendo Araldo del Gran Re, egli volse le
sue mire a far sì, che gli uomini si conformassero alla santità evangelica e
all’amore della Croce, non già che dei fiori e degli uccelli, degli agnelli,
dei pesci e delle lepri si rendessero soltanto sdilinquiti amatori.
Che se egli verso le creature
sembra trasportato da una certa tenerezza di affetto, e « per quanto piccole
» le chiama « coi nomi di fratello o di sorella » — amore, peraltro, che
quando non esca dall’ordine non è proibito da nessuna legge — non da altra
causa che dalla sua stessa carità verso Dio egli si muove ad amare le dette
creature, le quali « sapeva avere con lui uno stesso principio » [28]
e nelle quali guardava la bontà di Dio; giacché « da per tutto egli va
seguendo il Diletto sulle orme impresse nelle cose, di tutte le cose si fa
scala per giungere al trono di Lui » [29].
Quanto al resto, che cosa proibisce agli italiani di gloriarsi dell’Italiano,
il quale nella stessa liturgia è chiamato « luce della Patria »? [30].
Che cosa impedisce ai fautori del popolo di predicare quella che fu la carità
di Francesco verso tutti gli uomini, specialmente poveri? Ma gli uni si
guardino per lo smoderato amore verso la propria nazione, di vantarlo quasi
segno e vessillo di questo acceso amore nazionale, rimpicciolendo il « campione
cattolico »; gli altri si guardino dal gabellarlo per un precursore e
patrono di errori, dal che egli era lontano, quant’altri mai. D’altra parte
tutti quelli che non senza qualche affetto di pietà prendono gusto a queste
lodi minori dell’Assisiate e si affaticano con fervore a promuoverne le feste
centenarie, piacesse al cielo che come sono degni del nostro encomio, così
dalla stessa fausta ricorrenza traessero forte stimolo a esaminare più
sottilmente l’immagine genuina di questo grandissimo imitatore di Cristo, e ad
aspirare ai migliori carismi.
Intanto, Venerabili Fratelli, Noi
abbiamo un bel motivo d’allegrezza, nel vedere come per la concorde mira di
tutti i buoni a celebrare la memoria del Santo Patriarca, lungo l’anno sette
volte secolare dalla sua morte, si vanno allestendo in tutto il mondo solennità
religiose e civili, ma specialmente in quelle contrade, che egli vivente
nobilitò con la presenza e con la luce della santità e con la gloria dei
miracoli. Nel che vediamo con molto piacere andare voi innanzi, con l’esempio,
ciascuno al proprio clero e gregge. E già fin d’ora si presentano all’animo
Nostro, anzi quasi agli occhi Nostri, le foltissime schiere di pellegrini che
andranno a visitare Assisi e gli altri vicini Santuari della verde Umbria, o
gli scoscesi gioghi della Verna o i colli sacri che guardano sulla valle di
Rieti; luoghi nei quali Francesco sembra ancora vivere e darci esempio delle
sue virtù, e dei quali i pii visitatori non potranno non tornare a casa più
imbevuti di spirito francescano.
Infatti — per usare le parole di Leone XIII — « bisogna ben
persuadersi che gli onori che si preparano a San Francesco torneranno
particolarmente accetti a lui, cui sono indirizzati, se riusciranno fruttuosi a
chi li rende. Ora, il più sostanziale e non passeggero profitto consiste in
questo: che gli uomini prendano qualche tratto di somiglianza dalla sovrana
virtù di colui che ammirano, e procurino di rendersi migliori imitandolo »
[31].
Taluno forse dirà che a restaurare la società cristiana ci vorrebbe oggi
fra noi un altro Francesco. Nondimeno, fate che gli uomini con rinnovato zelo
prendano l’antico Francesco a maestro di pietà e di santità; fate che essi
imitino e ritraggano in sé gli esempi che egli lasciò, come colui che era « specchio
di virtù, via di rettitudine, regola di costumi » [32]; non avrà questo tanta
virtù ed efficacia che basti a sanare ed a troncare la corruzione dei nostri
tempi?
In primo luogo, dunque, debbono ricopiare in sé l’immagine insigne del
Padre e Legislatore i tanti suoi figli dei tre Ordini; i quali essendo « stabiliti
in tutto il mondo » — come Gregorio IX scriveva alla beata Agnese, figlia
del re di Boemia — « ogni giorno in essi l’Onnipotente è reso in molti modi
glorioso » [33]. E con i religiosi del
Primo ordine, quale che sia il loro nome francescano, da una parte Ci
congratuliamo vivamente che dalle indegnissime vessazioni e spogliazioni, come
oro passato nel crogiuolo, riprendano ogni giorno più l’antico splendore; e
dall’altra sinceramente desideriamo che con l’esempio della propria penitenza ed
umiltà levino quasi alte proteste contro la concupiscenza della carne e la
superbia della vita così ampiamente diffusa. Sia ufficio loro richiamare il
prossimo ai precetti evangelici del vivere: il che meno difficilmente
conseguiranno, quando osservino scrupolosamente la Regola, che il Fondatore
chiamava « libro della vita, speranza della salute, midolla del Vangelo, via
della perfezione, chiave del paradiso, patto dell’eterna alleanza » [34]. Il Serafico Patriarca
poi non cessi di assistere ed aiutare dal cielo la mistica vigna, che egli con
le sue mani piantò, e la molteplice propaggine talmente nutrisca e corrobori
dell’umore e del succo della fraterna carità, che tutti, divenuti « un cuore
e un’anima sola », s’adoperino con ogni zelo al rinnovamento della famiglia
cristiana.
Le sacre vergini, poi, del Secondo Ordine, partecipi « della vita
angelica, che per Chiara divenne chiara », continuino a diffondere, quali
gigli piantati nelle aiuole dell’Orto del Signore, il più soave olezzo e a
piacere a Dio col niveo candore dell’anima. Per le loro preghiere, sì, avvenga
che i peccatori, in molto maggior numero, ricorrano alla clemenza di Cristo
Signore, e la Madre Chiesa senta crescere mirabilmente il proprio gaudio per i
figli restituiti nella divina grazia e nella speranza dell’eterna salute.
Infine Ci rivolgiamo ai Terziari, sia uniti in comunità regolari, sia viventi
nel secolo, perché si adoperino anch’essi col proprio apostolato a promuovere
il profitto spirituale del popolo cristiano. Il quale apostolato, se al
principio li fece degni di essere chiamati da Gregorio IX soldati di Cristo e
novelli Maccabei, può anche oggi riuscire di non minore efficacia per la comune
salute, purché essi, quanto sono cresciuti di numero su tutta la terra,
altrettanto, fatti simili al loro Padre San Francesco, diano prova d’innocenza
e d’integrità di costumi. E quel che scrissero i Nostri antecessori Leone XIII nella Lettera « Auspicato », e Benedetto XV nell’Enciclica « Sacra
propediem », significando a tutti i vescovi dell’orbe cattolico ciò che
sarebbe loro piaciuto grandemente, questo stesso, Venerabili Fratelli, Noi Ci
ripromettiamo dallo zelo pastorale di tutti voi: che cioè favorirete in tutti i
modi il Terz’Ordine francescano, ammaestrando il gregge — o da voi stessi o per
l’opera di sacerdoti colti e idonei al ministero della parola — sugli scopi di
quest’Ordine di uomini e di donne secolari, e quanto sia da stimarsi, e come
riesca spedito l’ingresso nel Sodalizio e facile l’osservanza delle Sante
Regole, e quale l’abbondanza delle indulgenze e dei privilegi di cui i Terziari
fruiscono; infine, che grande utilità ridondi dal Terz’Ordine sui singoli e
sulla comunità. Coloro che non ancora abbiano dato il nome a questa gloriosa
milizia, lo diano quest’anno su vostro incitamento; e coloro che ancora non lo
possono dare per ragione dell’età, si iscrivano candidati cordiglieri, sì che
da fanciulli s’avvezzino a questa santa disciplina.
E poiché dai salutari avvenimenti
offertisi così spesso a celebrare, sembra Iddio benignamente volere che il
nostro Pontificato non trascorra senza i più lieti frutti nel popolo cattolico,
vediamo con gran piacere apparecchiarsi questa solenne celebrazione centenaria
di San Francesco, il quale « mentre visse rifondò la casa, e ai suoi tempi
fu ristoratore del tempio » [35];
tanto più che sin dal fiore degli anni lo venerammo Patrono con grande
devozione e fummo già annoverati tra i suoi figli, prendendo le insegne del
Terz’Ordine. In quest’anno dunque, che è il settecentesimo dalla morte del
Padre Serafico, il mondo cattolico e la nostra nazione in particolare ricevano
per intercessione di San Francesco, tanta dovizia di benefìci, che sia un anno
da rimanere nella storia della Chiesa perpetuamente memorabile.
Intanto, Venerabili Fratelli, in
auspicio dei celesti doni e a testimonianza della Nostra benevolenza, a voi, al
clero e al popolo vostro di tutto cuore impartiamo nel Signore l’Apostolica
Benedizione.
Dato a Roma, presso San
Pietro, il 30 aprile dell’anno 1926, quinto del Nostro Pontificato.
PIUS PP.
XI
[1]
Par., XI.
[2]
Leg. I, n. 37.
[4]
Reg. Fr. Minorum., initio.
[5]
Leg. mai., c.1, n. 1.
[6]
II Cor., VIII, 9.
[12]
Opusc. Salutatio virtutum (Ed. 1904), p. 20 et seqq.
[15]
Matth., XX, 26-28; Luc., XXII, 26.
[16]
S. Bonav. Leg. mai., c. 6, n. 5.
[18]
Iulian a Spira, Vita S. Fr. ,n. 28.
[19]
Reg Fr. Minor., passim.
[20]
Leg. Trium Sociorum, n. 33 et seqq.
[22]
Leg. I, n. 55.
[23]
Leg. mai., c. 9, n. 1.
[24]
Leg. Trium Sociorum, n. 21.
[30]
Brev. Fr. Minorum.
[32]
Brev. Fr. Minorum.
[33]
Ep. De Conditoris omnium, 9 Maii 1238.
[35]
Eccli., L. 1.
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