LETTERA ENCICLICA
AD SALUTEM HUMANI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
IN OCCASIONE DEL QUINDICESIMO CENTENARIO
DELLA MORTE DI SANT'AGOSTINO
AD SALUTEM HUMANI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
IN OCCASIONE DEL QUINDICESIMO CENTENARIO
DELLA MORTE DI SANT'AGOSTINO
Ai Venerabili Fratelli
Patriarchi,
Primati, Arcivescovi, Vescovi
e agli altri Ordinari locali
che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.
Primati, Arcivescovi, Vescovi
e agli altri Ordinari locali
che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.
Venerabili Fratelli, salute e
Apostolica Benedizione.
L’efficace assistenza, con la
quale Gesù Cristo ha finora protetto e proteggerà in avvenire la Chiesa da Lui
provvidenzialmente fondata per la salute del genere umano, se già non apparisse
conveniente, anzi del tutto necessaria alla natura stessa della divina
istituzione e non si appoggiasse alla promessa del divino Fondatore, quale si
legge nel Vangelo, si potrebbe tuttavia dedurre con ogni evidenza dalla stessa
storia della Chiesa, non mai contaminata da veruna peste di errore, né scossa
dalle defezioni, per quanto numerose, di figli suoi, né dalle persecuzioni
degli empi, anche se spinte all’estremo della ferocia, mai limitata nel suo
vigoroso rigoglio, quasi di gioventù che continuamente si rinnova. Svariate
furono le vie e i disegni con cui Iddio volle, in ogni età, provvedere alla
stabilità e favorire i progressi della sua istituzione perenne, ma specialmente
vi provvide suscitando di volta in volta uomini insigni, perché essi, con
l’ingegno e con opere mirabilmente opportune alla varietà dei tempi e delle
circostanze, arginando e debellando il potere delle tenebre, confortassero il
popolo cristiano.
Orbene, tale accurata elezione
della Divina Provvidenza, più che in altri, risalta nitidamente in Agostino di
Tagaste. Egli, dopo essere apparso ai coetanei quasi lucerna sul candelabro,
sterminatore di ogni eresia e guida all’eterna salute, non solo continuò nel
corso dei secoli ad ammaestrare e confortare i fedeli, ma anche ai giorni
nostri reca un grandissimo contributo perché vigoreggi il fulgore della verità
della fede e divampi l’ardore della carità divina. Anzi a tutti è noto, come
non pochi, benché da Noi separati e che sembrano persino totalmente alieni
dalla fede, si sentono attratti dagli scritti di Agostino, pieni di tanta
sublimità e di soave diletto. Pertanto, cadendo quest’anno la fausta ricorrenza
del XV centenario della beata morte del grande Vescovo e Dottore, i fedeli di
quasi tutto il mondo bramosi di celebrarne la memoria, preparano solenni
dimostrazioni di devota ammirazione. E Noi, sia per ragione del Nostro
ministero apostolico, sia perché mossi da profondo sentimento di giubilo,
volendo prendere parte a questa celebrazione universale, vi esortiamo, venerabili
Fratelli, e con voi esortiamo il vostro clero e il popolo a voi affidato, a
unirvi con noi nel rendere vivissime grazie al Padre celeste per aver egli
arricchito la sua Chiesa di così grandi e numerosi benefìci per mezzo di
Agostino, il quale dalla doviziosa sorgente dei doni divini tanta ricchezza
seppe attingere per sé e tanta diffonderne in mezzo al popolo cattolico. Ben è
vero però che anziché gloriarsi di un uomo, il quale, aggregato quasi per
prodigio al corpo mistico di Gesù Cristo, non ebbe forse mai, a giudizio della
storia, in nessun tempo e presso nessun popolo chi lo superasse in grandezza e
sublimità, converrà piuttosto penetrarne la dottrina e nutrirsene e imitare gli
esempi della santa sua vita.
Le lodi di Agostino non cessarono
mai di risuonare nella Chiesa di Dio, massime per opera dei Romani Pontefici.
Infatti Innocenzo I salutava il santo Vescovo ancora vivente, suo amico
carissimo [1], ed encomiava
le lettere ricevute da lui e da quattro Vescovi suoi amici come « lettere
piene di fede e forti di tutto il vigore della religione cattolica » [2]. E Celestino
I difendeva dagli avversari Agostino, poc’anzi defunto, con queste magnifiche
parole: «Noi ritenemmo sempre nella nostra comunione Agostino di santa
memoria per la sua vita e per i suoi meriti, né mai quest’uomo fu anche solo
sfiorato da dicerie di sinistro sospetto; e ricordiamo ch’egli fu ai suoi tempi
di tanto sapere, che anche dai miei predecessori fu sempre reputato fra i
maestri migliori. Tutti dunque nutrirono comunemente buona opinione di lui,
come d’uomo che riuscì a tutti di gradimento e di onore » [3]. Gelasio I
esaltava insieme Girolamo ed Agostino, « quali luminari dei maestri
ecclesiastici » [4]; ed Ormisda,
al vescovo Possessore che lo consultava, rispose in questa forma veramente
solenne: «Quale dottrina sia tenuta e affermata dalla Chiesa Romana, ossia
cattolica, intorno al libero arbitrio e alla grazia divina, benché possa
conoscersi nei vari libri del beato Agostino, massime in quelli ad Ilario e a
Prospero, tuttavia si hanno capitoli espliciti negli archivi ecclesiastici
» [5]. Non diversa
è la testimonianza di Giovanni II, il quale, richiamandosi contro gli eretici
alle opere di Agostino, dice: « La sua dottrina, secondo gli statuti dei
miei predecessori, è seguita ed osservata dalla Chiesa Romana » [6]. E chi ignora
quanto, nei tempi più vicini alla morte di Agostino, fossero
versati nella dottrina di lui i Pontefici Romani, come per esempio Leone Magno
e Gregorio Magno? Questi infatti, con sentimento quanto umile per sé
altrettanto onorifico per Agostino, così scriveva ad Innocenzo, Prefetto
dell’Africa: «Se desiderate impinguarvi di un pascolo delizioso, leggete gli
opuscoli di Agostino, vostro compatriota, e dopo l’acquisto del suo fior di
farina non cercate la nostra crusca » [7]. È parimenti
noto come Adriano I fosse solito citare passi di Agostino, da lui chiamato «Dottore
egregio » [8]; è noto
altresì come Clemente VIII per chiarire controversie difficili e Pio VI nella
Costituzione Apostolica « Auctorem Fidei » per smascherare gli equivoci
capziosi del Sinodo di Pistoia si servissero, come di appoggio, dell’autorità
di Agostino. Torna poi ad onore del Vescovo d’Ippona, che assai spesso i Padri
riuniti in Concilio adoperarono le stesse sue parole per definire la verità
cattolica; e basti citare come esempio il Concilio di Orange II e il Tridentino.
E per rifarCi agli anni Nostri giovanili, Ci piace riferire qui, e quasi far
soavemente risonare nel Nostro cuore le parole con cui l’immortale Nostro
predecessore Leone
XIII, dopo aver fatto menzione dei Dottori delle età precedenti a quella di
Agostino, esalta l’aiuto da lui recato alla filosofia cristiana: «Ma parve
che a tutti togliesse la palma Agostino, il quale, dotato di robustissimo ingegno,
e pieno al sommo delle discipline sacre e profane, gagliardamente combatté
tutti gli errori dell’età sua con somma fede e con eguale dottrina. Qual punto
della filosofia non ha egli toccato? Anzi, quale non approfondì con somma
diligenza, o quando spiegava ai fedeli i misteri altissimi della fede e li
difendeva contro gli stolti assalti degli avversari, o quando, annientate le
follie degli Accademici e dei Manichei, metteva in salvo i fondamenti e la
solidità della scienza umana, o quando andava ricercando la ragione, l’origine
e le cause di quei mali dai quali gli uomini sono travagliati? »[9].
Ma prima di addentrarCi nella
trattazione dell’argomento che Ci siamo proposto, vogliamo che siano tutti
avvertiti che le lodi, veramente magnifiche, tributate dagli antichi autori ad
Agostino, vanno prese nel loro giusto valore, e non già nel senso in cui le
intesero alcuni di sentimenti non cattolici, come se l’autorità delle sentenze
di Agostino fosse da anteporre all’autorità della Chiesa docente.
Veramente « ammirabile è Iddio
ne’ suoi Santi! » [10]. Ed
Agostino nel libro delle sue Confessioni illustrò ed altamente magnificò la
misericordia usatagli da Dio, con accenti che sembrano prorompere dai recessi
più profondi di un cuore pieno di gratitudine e di amore. Per una speciale
disposizione della Divina provvidenza, fin da fanciullo da sua madre Monica era
stato talmente infiammato dell’amore divino, che poté un giorno esclamare: «Questo
nome, tutto secondo la tua misericordia, o Signore, questo nome del mio
Salvatore e Figlio tuo, fu dal mio cuore ancor tenero succhiato con lo stesso
latte materno e altamente ritenuto impresso; e qualunque cosa non portasse
questo nome, per quanto ricca di dottrina, di eleganza e di verità, non mi
attirava totalmente » [11]. Da giovane
poi, lungi dalla madre e discepolo di pagani, rallentatosi nella pietà di
prima, si diede miseramente a servire alle voluttà del corpo e s’impigliò nei
lacci dei Manichei, rimanendo nella loro setta circa nove anni; e ciò permise
l’Altissimo, perché il futuro Dottore della Grazia apprendesse per propria
esperienza, e tramandasse ai posteri, quanta sia la debolezza e la fragilità di
un cuore, anche nobilissimo, non rinsaldato nella via della virtù dall’aiuto di
una formazione cristiana e dalla preghiera assidua, massime nell’età giovanile,
quando la mente con maggiore facilità resta adescata e snervata dagli errori,
ed il cuore viene sconvolto dai primi impulsi dei sensi. Parimente Iddio
permise questo disordine, perché Agostino conoscesse per pratica quanto
infelice sia colui che tenta di riempirsi e saziarsi di beni creati, come egli
stesso più tardi ebbe schiettamente a confessare al cospetto di Dio: « Tu
infatti mi eri sempre vicino, misericordiosamente tormentandomi e aspergendo di
amarissime contrarietà tutti i miei illeciti godimenti, perché così cercassi di
godere senza contrarietà, e insieme non trovassi ove poter ciò fare, fuori di
te, o Signore » [12]. E come mai
Agostino sarebbe stato abbandonato a se stesso dal Padre celeste, se per lui
insisteva con pianti e preghiere Monica, vero modello di quelle madri cristiane
le quali, con la loro pazienza e dolcezza, con la continua invocazione della
Divina Misericordia, ottengono alla fine di veder richiamati i figliuoli al
retto sentiero? No, non poteva accadere che perisse il figlio di tante lacrime
[13]; e bene
ebbe a dire lo stesso Agostino: « Anche quanto narrai nei medesimi libri
intorno alla mia conversione, convertendomi Iddio a quella fede che io turbavo
con la mia così meschina e dissennata loquacità, non ricordate come tutto
questo fu narrato in modo da mettere in risalto essere stato concesso alle
fedeli e costanti lacrime di mia madre che io non perissi? »[14]. Pertanto
Agostino cominciò gradatamente a staccarsi dall’eresia de’ Manichei, e, come
spinto da ispirazione e impulso divino, a lasciarsi condurre incontro al
Vescovo di Milano, Ambrogio, mentre il Signore « con mano tutta delicatezza
e misericordia, trattando e plasmando il cuore » [15] di lui,
operava in modo che, per mezzo dei dotti sermoni di Ambrogio, venisse condotto
a credere nella Chiesa Cattolica e nella verità dei Libri Santi; sicché fin
d’allora il figlio di Monica, benché non ancora sciolto dalle cure e dalle
lusinghe dei vizi, pure era già fermamente persuaso che, per divina
disposizione, non esiste via di salute se non in Gesù Cristo Signor Nostro e
nella Sacra Scrittura, della cui verità unica garante è l’autorità della Chiesa
Cattolica [16]. Ma quanto
difficile e tormentata è la totale mutazione di un uomo da lungo tempo
fuorviato! Egli infatti continuava a servire alle cupidigie e passioni del
cuore, non sentendosi abbastanza forte da soffocarle; e lungi dall’attingere il
vigore a ciò necessario almeno dalla dottrina platonica intorno a Dio e alle
creature, avrebbe anzi spinto all’estremo la sua miseria con una miseria assai
peggiore, ossia con la superbia, se finalmente non avesse appreso dalle
Epistole di San Paolo, che chiunque voglia vivere da cristiano deve cercare
appoggio nel fondamento dell’umiltà e nell’aiuto della grazia divina. Allora
finalmente — episodio che nessuno può rileggere o ricordare senza sentirsi
commuovere fino alle lacrime — pentito dei trascorsi della vita passata e mosso
dall’esempio di tanti fedeli, che rinunciavano a tutto pur di lucrare l’unica
cosa necessaria, si diede vinto alla misericordia divina, che lo stringeva
soavemente di assedio, allorché colpito, mentre pregava, da una voce repentina
che gli diceva: « Prendi e leggi », aperto il libro delle Epistole che
gli stava vicino, sotto l’impulso della grazia celeste che tanto efficacemente
lo stimolava, gli cadde sott’occhi quel passo: «Non nelle crapule e nelle
ubriachezze, non nelle morbidezze e disonestà, non nella discordia e
nell’invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della
carne nelle sue concupiscenze » [17]. E a tutti
è noto come da quel momento, fino a quando rese l’anima a Dio, Agostino vivesse
ormai totalmente consacrato al suo Signore.
Certo, apparve ben presto quale «
vaso di elezione » e quanto illustri imprese il Signore avesse preparato
in Agostino. Il quale, appena ordinato sacerdote e poi assunto all’episcopato
di Ippona, prese ad illuminare con gli splendori della sua immensa dottrina e a
giovare coi benefìci del suo apostolato non solo l’Africa cristiana ma la
Chiesa tutta. Egli meditava pertanto le Scritture sacre, innalzava al Signore
preghiere prolungate e frequenti, delle quali ancora ci risuonano nei suoi
libri i sensi e gli accenti fervorosi, e intensamente studiava le opere dei
Padri e dei Dottori che l’avevano preceduto e che egli umilmente venerava, per
sempre meglio penetrarvi e assimilarne le verità rivelate da Dio. Così, sebbene
posteriore a quei santi personaggi che rifulsero come astri splendidissimi nel
cielo della Chiesa, quali ad esempio Clemente di Roma e un Ireneo, un Ilario e
un Atanasio, un Cipriano e un Ambrogio, un Basilio, un Gregorio Nazianzeno e un
Giovanni Crisostomo, e sebbene fosse contemporaneo di Girolamo, Agostino
riscuote tuttavia la maggiore ammirazione presso il genere umano per l’acutezza
e la gravità dei pensieri e per quella meravigliosa sapienza che spirano i suoi
scritti, composti e pubblicati per il lungo periodo di quasi cinquant’anni. Se
riesce arduo il seguire quelle sue così numerose e copiose pubblicazioni che,
abbracciando tutte le questioni precipue della teologia, della sacra esegesi e
della morale, sono tali che i commentatori appena riescono ad abbracciarle e a
comprenderle tutte, sarà bene tuttavia in una così ricca miniera di dottrina
trarre in luce alcuni di quegli ammaestramenti che sembrano più opportuni ai
tempi nostri e più utili alla società cristiana.
Dapprima Agostino si adoperò con
ardore a che gli uomini imparassero e con ferma persuasione ritenessero quale
fosse il fine ultimo e supremo prefisso loro, e quale la via unica da seguire
per giungere alla verace felicità. E chi, domandiamo noi, per quanto leggero e
frivolo, poteva udire senza commuoversi un uomo, stato per tanto tempo dedito
alle voluttà e ricco di tante doti da procacciarsi le agiatezze di questa vita,
confessare a Dio. «Ci hai fatto per te, e il nostro cuore
è inquieto fin che riposi in te »? [18]. Parole che, mentre ci danno la sintesi di tutta la filosofia ci
descrivono insieme al vivo sia la carità divina verso di noi, sia la dignità
singolare dell’uomo, sia la condizione miseranda di quelli che vivono lontano
dal loro Creatore. E senza dubbio, ai nostri tempi soprattutto, in cui le
meravigliose proprietà delle cose create ci si manifestano ogni giorno più
chiaramente, e l’uomo con la virtù del suo genio riduce in suo potere le forze
prodigiose per applicarle ai proprî vantaggi, ai proprî lussi e godimenti;
oggidì, diciamo, mentre le opere e i capolavori artistici che l’intelligenza o
la meccanica dell’uomo va producendo, si moltiplicano ogni giorno, e con
incredibile rapidità si esportano in tutte le parti della terra, avviene
purtroppo che l’animo nostro, immergendosi tutto nelle creature, dimentichi il
Creatore, cerchi i beni fuggevoli trascurando gli eterni e converta in danno
privato e pubblico, e in rovina sua propria, quei doni che dal benignissimo
Iddio ha ricevuto al fine di dilatare il regno di Gesù Cristo e promuovere la
salvezza sua propria. Orbene per non lasciarci assorbire da una siffatta
civiltà umana, tutta intenta alle cose sensibili e alle voluttà, conviene
meditare profondamente i princìpi della sapienza cristiana, tanto bene proposti
e chiariti dal Vescovo d’Ippona: « Iddio dunque sapientissimo Creatore e
ordinatore giustissimo delle nature tutte, Egli, che costituì il genere umano
come l’ornamento massimo tra tutte le cose terrene, diede agli uomini alcuni
beni convenevoli a questa vita, cioè la pace temporale secondo il modo della
vita mortale, nella salvezza, nell’incolumità, e la società dello stesso genere
umano, e le altre cose che sono necessarie a conservare o a recuperare questa
pace stessa, come quelle che sono con opportuna convenienza accessibili ai
sensi, la luce, la notte, l’aria da respirare, l’acqua da bere e tutto ciò che
serve a nutrire, a vestire, a curare e ad abbellire il corpo, con questa
condizione giustissima che se l’uomo farà un retto uso di siffatti beni
proporzionati alla pace dei mortali, ne riceverà dei maggiori e migliori, cioè
la stessa pace dell’immortalità e la convenevole gloria, e onore nella vita
eterna per godere di Dio e del prossimo in Dio; chi invece ne avrà abusato, non
otterrà gli uni e perderà insieme gli altri beni » [19].
Ma parlando del fine ultimo dell’uomo, Sant’Agostino si affretta a
soggiungere che vano sarà lo sforzo di quanti vogliono raggiungerlo, se non si
sottometteranno alla Chiesa Cattolica e non le presteranno umile obbedienza,
essendo la Chiesa sola divinamente istituita per conferire luce e forza alle
anime, quella luce e quella forza senza le quali necessariamente si devia dal
retto sentiero e si corre facilmente all’eterna rovina. Iddio infatti, per sua
bontà, non ha voluto che gli uomini restassero come titubanti e ciechi a
ricercarlo: « cercare Iddio se mai, a tentoni, lo rinvenissero » [20]; ma, sgombrate le tenebre dell’ignoranza, si diede a conoscere
mediante la rivelazione e richiamò gli erranti al dovere di pentirsi: e « sopra
i tempi di una tale ignoranza avendo Iddio chiuso gli occhi, adesso ordina agli
uomini che tutti in ogni luogo facciano penitenza » [21]. Così avendo guidato gli scrittori sacri con la sua ispirazione,
affidò le Scritture sante alla Chiesa, perché le custodisse e autenticamente le
interpretasse, mentre della Chiesa stessa mostrò e confermò fin da principio
l’origine divina, con i miracoli operati da Cristo suo fondatore: « sanati i
languenti, mondati i lebbrosi, restituito il camminare agli zoppi, la vista ai
ciechi e l’udito ai sordi. Gli uomini di quel tempo videro l’acqua convertita
in vino, cinque migliaia di persone saziate con cinque pani, i mari passati a
piedi, i morti che risorsero a vita. Alcune
di queste meraviglie provvedevano con più manifesto beneficio al corpo, altre
con prodigio più occulto all’anima, e tutte agli uomini con la testimonianza
della maestà divina. Così allora l’autorità di Dio tirava a sé le anime erranti
dei mortali » [22]. E sia pure che la frequenza dei miracoli andasse poi alquanto
diminuendo; ma per quale ragione, chiediamo, avvenne ciò se non perché la
testimonianza divina si venne facendo ogni giorno più manifesta e per la stessa
meravigliosa propagazione della fede e per il miglioramento che ne seguiva alla
società, a norma della morale cristiana? « Pensi, dunque — così
Agostino, nell’adoperarsi a richiamare alla Chiesa il suo amico Onorato — pensi
che poco vantaggio sia derivato alle cose umane dal fatto che non poche persone
dottissime hanno preso a discutere, e lo stesso volgo ignorante, di uomini e di
donne, crede e confessa come nessuno degli elementi né di terra né di fuoco,
niente insomma che tocchi i sensi del corpo, si può adorare invece di Dio, e a
Dio si ha da arrivare per la sola via dell’intelligenza? che professa
l’astinenza fin a contentarsi di lievissimo sostentamento di pane e di acqua, e
pratica digiuni non osservati per un giorno solo, ma continuati per più giorni,
e la castità fino alla rinuncia delle nozze e dei figli? che si sottopone ai
patimenti fino a non far conto delle croci e del fuoco? che la liberalità
spinge fino a distribuire ai poveri i proprî patrimoni? infine, che tutto
questo mondo visibile disprezza, fino al desiderio della morte? Il praticare
ciò è di pochi; minore è il numero di coloro che sanno farlo come si conviene;
ma intanto ecco moltitudine di gente che l’approva, che l’ascolta, che
manifesta per questo il suo favore, che infine l’ama; essi danno colpa alla
propria fiacchezza, se non arrivano a tanto, ma ciò non è senza profitto dello
spirito nella via di Dio, né senza produrre almeno alcune scintille di virtù. A
tanto condusse la divina provvidenza con gli oracoli dei profeti; con
l’Incarnazione e l’insegnamento di Cristo; con i viaggi degli Apostoli; con le
contumelie, le croci, il sangue, le morti dei martiri; con la vita edificante
dei Santi, e oltre a tutto questo, secondo la convenienza dei tempi, con
miracoli degni di fatti e di virtù tanto grandi. Considerando dunque tanto
manifesto l’intervento di Dio, con vantaggio e frutto così rilevanti, potremmo
noi esitare a raccoglierci nel seno di quella Chiesa, che nella Sede
Apostolica, per le successioni dei Vescovi, occupa il fastigio stesso
dell’autorità, riconosciuta dal genere umano, checché indarno vadano attorno
abbaiando gli eretici, condannati parte dal giudizio del popolo, parte dalla
solennità dei Concilii e parte anche dalla maestà dei miracoli? » [23]. Queste parole di Agostino, oltre a non avere finora perduto nulla di
forza e di autorità, sono state anzi, come ognuno vede, del tutto confermate
dal lungo spazio di ben quindici secoli, nel corso dei quali la Chiesa di Dio,
benché angustiata da tribolazioni tanto numerose e da tanti sconvolgimenti;
benché dilaniata da tante eresie e scissioni, afflitta dalla ribellione e dalla
indegnità di tanti suoi figli, pur nondimeno fidente nelle promesse del suo
Fondatore, mentre si è veduta cadere attorno, l’una dopo l’altra, le umane
istituzioni, non solamente è rimasta salva e sicura, ma ancora in ogni età,
oltre ad essere stata sempre più adorna di esempi di santità e di sacrificio ed
aver continuamente acceso ed aumentato in numerosissimi fedeli la fiamma della
carità, è giunta con l’opera dei suoi missionari, dei suoi martiri, alla
conquista di nuove genti, fra le quali sono in fiore e crescono vigorose la
tanto inclita prerogativa della verginità e la dignità del sacerdozio e
dell’episcopato; infine talmente seppe trasfondere nei popoli tutti il suo
spirito di carità e di giustizia, che gli stessi uomini a lei estranei o anche
nemici non possono che ritrarre da lei qualche cosa della sua maniera di
parlare e di operare. A ragione quindi Agostino, dopo aver mostrato ed opposto
ai Donatisti, i quali pretendevano restringere e rimpicciolire la vera Chiesa
di Cristo ad un angolo dell’Africa, la universalità, o come si dice, la
cattolicità della Chiesa aperta a tutti, perché vi potessero venire soccorsi e
difesi con i mezzi proprî della divina grazia, concludeva l’argomentazione con
queste solenni parole: « Sicuro ne giudica il mondo intero » [24]; la cui lettura, non è gran tempo, talmente colpì l’animo di un
personaggio illustre e nobilissimo, che senz’altra lunga e grave esitazione si
risolvette ad entrare nell’unico ovile di Cristo [25].
Del resto apertamente Agostino dichiarava che questa unità della Chiesa
universale, non meno che l’immunità del suo magistero da qualsiasi errore, non
solo procedeva dall’invisibile suo Capo Cristo Gesù, il quale « governa dal
cielo il corpo suo » [26] e parla mediante la sua Chiesa docente [27], ma anche dal capo visibile in terra, il Pontefice Romano, che, per
diritto legittimo di successione, siede sulla Cattedra di Pietro; poiché questa
serie dei successori di Pietro « è la stessa pietra che non possono vincere
le superbe porte dell’inferno » [28], e sicurissimamente nel grembo della Chiesa « ci mantiene, a
cominciare dallo stesso apostolo Pietro, a cui il Signore, dopo la sua
risurrezione, affidò da pascere le sue pecorelle, la successione dei sacerdoti
fino al presente episcopato » [29].
Pertanto, allorché cominciò a spandersi l’eresia Pelagiana e i seguaci
di essa si sforzavano, con inganno ed astuzia, di confondere le menti e gli
animi dei fedeli, i Padri del Concilio Milevitano che, oltre altri Concilii, si
radunò, per l’opera e quasi sotto la guida di Agostino, non presentarono forse
le questioni da essi discusse, e i decreti fatti per risolverle, a Innocenzo I,
perché li approvasse? E il Papa, rispondendo, lodava quei Vescovi del loro zelo
per la religione e dell’animo devotissimo al Romano Pontefice, ben « sapendo
essi — così diceva loro — che dalla sorgente apostolica sempre sgorgano
i responsi per tutte le regioni a coloro che li domandano; e specialmente,
quando trattasi della regola di fede, penso che non ad altri che a Pietro, cioè
a causa del loro nome ed onore, tutti i fratelli e colleghi nostri
nell’episcopato si debbano rivolgere, come ora si è rivolta la Carità vostra
perché egli è in grado di giovare in comune a tutte le Chiese, in qualsivoglia
parte del mondo si trovino » [30]. Così, dopo che la sentenza del Romano Pontefice contro Pelagio e
Celestio fu colà recata, Agostino in un discorso al popolo pronunciò quelle
memorande parole: « Intorno a questa causa furono già mandate le sentenze di
due Concilii alla Sede Apostolica; da essa si ebbero pure le risposte. La causa
è finita; Dio voglia che abbia fine una volta anche l’errore » [31]. Parole che, in forma alquanto compendiosa, sono passate in proverbio:
Roma ha parlato, la causa è finita. E altrove, dopo aver riferito la sentenza
del Papa Zosimo che condannava e riprovava i Pelagiani, dovunque fossero, egli
così diceva: « In queste parole della Sede Apostolica suona tanto certa e
chiara la fede cattolica, così antica e così sicura, che al cristiano non è
lecito dubitarne » [32].
Orbene chiunque crede alla
Chiesa, che dallo Sposo divino ricevette le ricchezze della grazia celeste da
distribuirsi specialmente per via dei sacramenti, sull’esempio del buon
Samaritano, infonde olio e vino nelle ferite dei figli di Adamo, in modo da
purificare i rei dalla colpa, da fortificare i deboli e gli infermi, e da
conformare infine i buoni all’ideale di una vita più perfetta. E sia pure che
qualche ministro di Cristo, abbia potuto talora venir meno al proprio dovere:
forse per questo sarà restata priva di efficacia la virtù di Cristo? « Anch’io,
dico, ascoltiamo il vescovo di Ippona, e tutti diciamo che i ministri di tanto
giudice devono essere giusti; siano i ministri giusti, se vogliono; che se poi
tali non vogliono essere coloro che siedono sulla cattedra di Mosè, mi
rassicurò nondimeno il mio maestro, del quale il suo Spirito disse: Questi è
colui che battezza » [33]. Oh,
davvero avessero ascoltato Agostino, o l’udissero oggi tutti coloro che, come i
Donatisti, sogliono prender motivo dalla caduta di qualche sacerdote, per
lacerare la inconsutile veste di Cristo, e si gettano in tal modo miseramente
fuori della via della salute! Abbiamo veduto con quanta
ubbidienza il nostro Santo, pur d’ingegno così sublime, si assoggettasse
all’autorità della Chiesa docente, ben persuaso fin che si fosse così regolato,
di non discostarsi un punto dalla cattolica dottrina. Inoltre, avendo ben
ponderato quella sentenza: « Se non avrete creduto non capirete » [34], aveva perfettamente inteso che, non solamente coloro i quali,
obbedientissimi agli insegnamenti della fede meditano la parola di Dio con
animo desideroso e umile, sono illustrati da quella luce celeste che è negata
ai superbi; ma anche che appartiene all’ufficio dei sacerdoti, le cui labbra devono
custodire la scienza [35] — essendo essi obbligati a debitamente spiegare e difendere le verità
rivelate, e farne ai fedeli penetrare il senso — di meditare profondamente, per
quanto dalla divina bontà è dato a ciascuno, le verità della fede. Così egli,
illuminato dalla Sapienza increata, nell’orazione e meditazione dei misteri
delle cose divine, poté giungere, coi suoi scritti, a lasciare in eredità ai
posteri un vasto e meraviglioso complesso di sacra dottrina.
Chiunque abbia dato una scorsa anche rapida a tanta ricchezza di opere
Venerabili Fratelli, certo non può ignorare con quanto acume il Vescovo di
Ippona si studiasse di progredire nella conoscenza di Dio stesso. Oh, come
seppe egregiamente sollevarsi dalla varietà ed armonia delle cose create al
loro Creatore, e con quanta efficacia si adoperò sia con gli scritti sia con la
viva parola perché da quelle anche il popolo affidato alle sue cure salisse a
Dio. « La bellezza della terra — diceva — è quasi una voce della muta
terra. Considerandone attentamente la bellezza, vedendo com’essa è feconda,
come ricca di forze, come fa germinare le sementi, come sovente produce anche
dove non fu seminato, ti senti spontaneamente portato quasi ad interrogarla,
poiché la stessa ricerca è un interrogare. Dalle cose stupende rivelate
dall’attenta investigazione, vedendo tanta potenza, tanta bellezza, tanta
eccellenza di virtù, la tua mente è portata a pensare come essa, non potendo
esistere da sé, deve avere ricevuto l’essere non da se stessa ma dal Creatore. E questo che in essa hai trovato,
è il grido della sua confessione affinché tu lodi il Creatore. E considerate le bellezze tutte di questo mondo, non senti forse quella
bellezza stessa rispondere come ad una voce: Non sono opera mia ma di Dio? » [36]. E con simile magnificenza di eloquio, quante volte egli esaltò
l’infinita perfezione, bellezza, bontà, eternità, immutabilità e potenza del
suo Creatore, mentre pur considerava come Dio si possa meglio pensare che
esprimere, come egli sia meglio nell’essere che nel pensiero [37], e come al Creatore più propriamente si convenga il nome che rivelò
Dio stesso a Mosè allorquando lo interrogava per sapere chi era che lo mandava
[38]. Tuttavia egli non fu pago di investigare la divina natura con le sole
forze dell’umana ragione, ma, seguendo il lume delle Sacre Scritture e dello
Spirito di Sapienza, applicò tutto il vigore del suo potentissimo ingegno a
scrutare nel più profondo di tutti i misteri quello che tanti altri Padri già
prima di lui avevano preso a difendere dagli empi assalti degli eretici, con una
costanza che diremmo senza limiti ed un meraviglioso ardore di spirito:
vogliamo dire l’adorabile Trinità del Padre, del Figliuolo e dello Spirito
Santo nell’unità della natura divina.
Ripieno di luce superna, egli ragiona di questo primo e fondamentale
articolo della fede cattolica con tale profondità e sottigliezza che per gli
altri Dottori venuti dopo di lui fu in qualche modo sufficiente che
attingessero dalle riflessioni di Agostino per innalzare quei saldi monumenti
di scienza divina in cui sono andati a spuntarsi in ogni tempo i dardi della
depravata ragione umana intesa a combattere questo mistero, il più difficile da
capire. E giova qui riferire la dottrina del Vescovo di Ippona: « Con
proprietà doversi dire che in quella Trinità appartiene alle singole persone
distintamente ciò che si dice reciprocamente in senso relativo, rispetto cioè
alle altre Persone, come Padre e Figlio e Dono di entrambi, lo Spirito Santo:
perché non il Padre è Trinità non Trinità è il Figlio, non Trinità è il Dono. E
ciò che si dice dei singoli a sé, non dirsi tre in plurale, ma uno solo, la
Trinità stessa; come Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo: buono il Padre,
buono il Figlio, buono lo Spirito Santo; onnipotente il Padre, onnipotente il
Figlio, onnipotente lo Spirito Santo; ma non tre Dei, o tre buoni, o tre
onnipotenti, ma un solo Dio, buono, onnipotente, la stessa Trinità: e ogni
altra cosa non si dica con relazione tra loro, ma dei singoli a sé. Ciò infatti
si dice di essi quanto all’Essenza, perché essere qui vale quanto essere
grande, essere buono, essere sapiente e ogni altra cosa che si dice essere a sé
ciascuna persona o la stessa Trinità » [39]. Il mistero che qui è adombrato con tanta sottigliezza e concisione,
egli poi si studia di farlo intendere in qualche modo mediante appropriate
similitudini: così, ad esempio, quando ravvisa una immagine della Trinità
nell’anima umana che si avvia alla santità. Essa infatti, nell’atto stesso in
cui si sovviene di Dio, lo pensa e lo ama: e ciò ci mostra in certa guisa come
il Verbo è generato dal Padre, « il quale in certo modo ha espresso nel
Verbo a sé coeterno tutto ciò ch’egli ha sostanzialmente » [40]; e come dal Padre e dal Figlio proceda lo Spirito Santo, che « ci
dimostra la comune carità con cui il Padre e il Figlio scambievolmente si amano
» [41]. Agostino ci ammonisce poi che questa immagine di Dio che è in noi,
dobbiamo renderla ogni giorno più splendida e più bella fino al termine della
vita; sicché quando questo termine avverrà, quella divina immagine già insita
in noi « divenga perfetta mediante la visione stessa che si godrà dopo il
giudizio a faccia a faccia, mentre avviene ora solo per ispecchio in enigma
» [42]. Né si potrà mai ammirare abbastanza la dichiarazione che il Dottore
d’Ippona ci dà del mistero dell’Unigenito di Dio fatto carne, quando chiede
esplicitamente (con quelle parole che San Leone Magno riferisce nella Lettera
dommatica a Leone Augusto) che « dobbiamo riconoscere una duplice sostanza
in Cristo, cioè la divina, per la quale egli è uguale al Padre, e l’umana per
la quale il Padre è superiore. Le due sostanze unite non formano due, ma un
solo Cristo; perché Dio non risulti una Quaternità ma una Trinità. Come infatti
l’anima razionale e la carne formano un solo uomo, così Dio e l’uomo formano un
solo Cristo » [43]. Sapientemente adoperò quindi Teodosio il giovane, allorquando ordinò
che egli, con ogni dimostrazione di riverenza, fosse indotto a partecipare al
Concilio Efesino, che abbatté l’eresia di Nestorio: ma una morte inattesa vietò
ad Agostino di unire la sua forte e possente voce alla voce degli altri Padri
presenti, nell’esecrare l’eretico che aveva osato, per così dire, dividere
Cristo ed impugnare la divina maternità della Beatissima Vergine [44], Non vogliamo poi tralasciare di ricordare, sia pur di passaggio, che
più di una volta Agostino mise pure in chiara luce la regale dignità di Cristo,
che Noi abbiamo additata e proposta al culto dei fedeli nell’Enciclica «Quas primas », pubblicata alla fine dell’Anno Santo: il che risulta anche dalle
lezioni desunte dai suoi scritti, che Ci piacque introdurre nella liturgia
della festa di N. S. Gesù Cristo Re.
Non vi è forse chi ignori come egli, abbracciando in uno sguardo la
storia di tutto il mondo, appoggiato a quei sussidi che potevano prestargli sia
la lettura assidua della Bibbia, sia la scienza umana di quei tempi, nella sua
eccellentissima opera «Della città di Dio » tratti mirabilmente della
divina provvidenza nel governo di tutte le cose e di tutti gli eventi. Con quel
suo profondo acume egli vede e distingue, nell’avanzare e progredire dell’umano
consorzio, due città, fondate sopra « due amori: cioè, l’amore terreno di se
stessi fino al disprezzo di Dio, e l’amore celeste di Dio fino al disprezzo di
se stessi » [45]; la prima, Babilonia; la seconda Gerusalemme; le quali « sono
insieme confuse, e vanno così confuse dall’origine dell’uman genere sino alla
fine del mondo » [46]; non però con eguale esito, giacché mentre verrà giorno in cui i
cittadini di Gerusalemme saranno chiamati a regnare con Dio eternamente, i
seguaci di Babilonia dovranno espiare per tutta l’eternità le loro nequizie
insieme coi demoni. Così alla mente investigatrice di Agostino la storia della
società umana appare come un quadro della incessante effusione in noi della
carità di Dio, il quale promuove l’incremento della città celeste da lui
fondata in mezzo a trionfi e a travagli, ma in modo che anche le follie e gli
eccessi, operati dalla città terrena abbiano a servire ai suoi progressi,
conforme sta scritto: « agli amanti di Dio, che giusta il proposito sono
chiamati santi, ogni cosa si volge in bene » [47]. Stolti ed insipienti sono quindi tutti coloro i quali considerano il
corso dei secoli non altrimenti che come uno scherzo ed un giuoco della cieca
fortuna e quasi fosse unicamente dominato dalla cupidigia e dalla ambizione dei
potenti della terra, ovvero come un’incessante spinta dello spirito a secondare
le forze umane, a favorire i progressi delle arti, a procacciarsi le agiatezze
della vita; laddove, al contrario, questi eventi naturali ad altro non hanno da
servire se non a secondare l’incremento della Città di Dio, che è quanto dire
la diffusione della verità evangelica e il conseguimento della salute delle
anime in conformità degli arcani ma pur sempre misericordiosi consigli di Colui
« il quale attinge dall’una all’altra estremità fortemente, e tutto dispone
con soavità » [48]. E per insistere alquanto su questo punto diremo ancora che Agostino
volle impresso il marchio o meglio bollate a fuoco le turpitudini del
paganesimo dei Greci e dei Romani; della cui religione alcuni scrittori dei
nostri giorni, leggeri e dissoluti, sembrano quasi sdilinquirsi di desiderio,
stimandola cosa eccellente per bellezza, armonia e piacevolezza. Egli, che ben
conosceva come i suoi contemporanei vivevano infelicemente dimentichi di Dio,
non di rado ricorda con parole mordaci, talvolta con frasi sdegnose tutto ciò
che di violento, di insulso, di atroce e di lussurioso si era infiltrato per
opera dei demoni nei costumi degli uomini mediante il falso culto degli dei.
Nessuno del resto potrebbe illudersi di trovare salvezza in quel fallace ideale
di perfezione che la Città terrena si propone: non v’è persona, infatti, che
riesca ad attuarlo in se stesso, e se pure vi riuscisse, non otterrebbe altro
che il gusto di una gloria vana e fugace. Agostino lodava sì i Romani antichi, in quanto « posponevano
gli interessi privati a quelli pubblici, cioè a quelli dello Stato, e facendo
tacere la propria avarizia sovvenivano al pubblico erario e provvedevano
spontaneamente ai bisogni della patria: uomini onesti e costumati,
conformemente alle leggi allora vigenti, che si giovarono di tutti questi mezzi
della vera via a conseguire onori, imperio e gloria; furono in onore tra quasi
tutti i popoli; e assoggettarono molte genti alle leggi dell’impero » [49]. Ma, come
egli soggiunge poco dopo, con tali e tante fatiche che cosa altro essi
ottennero mai « se non quel fasto inutile e vano dell’umana gloria, alla
quale si riduce tutta la ricompensa di tanti che arsero di cupidigia, e
intrapresero guerre furenti per essa? »[50]. Non ne
segue per altro che i felici successi e l’impero stesso, dei quali il Creatore
nostro si serve giusta i segreti consigli della sua provvidenza, siano un
privilegio riservato solo a coloro che non si curano della Città celeste. Iddio
infatti « ricolmò l’Imperatore Costantino che non invocava i demoni ma
adorava lo stesso vero Dio, di tanti doni temporali, quanti nessuno oserebbe
desiderare » [51]; e concesse
una prospera fortuna e innumerevoli trionfi a Teodosio, che si diceva « più
lieto di appartenere alla Chiesa che non all’impero terreno » [52], e ripreso
da Ambrogio per la strage di Tessalonica « ne fece penitenza in guisa che il
popolo orante per lui spargeva più lacrime nel vedere la maestà imperiale
umiliata, che non la temesse quando peccando aveva infierito » [53]. Anzi,
ancorché i beni di questo mondo siano elargiti indistintamente a tutti, buoni e
cattivi, come pure le sventure possano colpire tutti, onesti e malvagi, non si
può tuttavia dubitare che Iddio distribuisce i beni e i mali di questa vita
come meglio giovano alla salute eterna delle anime e al bene della Città
celeste. Quindi è che i prìncipi e i governanti, avendo ricevuto la potestà da
Dio affinché con l’opera loro si sforzino, ciascuno nei limiti della propria
autorità, ad attuare i disegni della divina Provvidenza, cooperando con essa,
evidentemente non debbono mai, per provvedere al benessere temporale dei
cittadini, perdere di vista quel fine altissimo che è proposto a tutti gli
uomini; e non solo non debbono fare od ordinare cosa alcuna la quale possa
riuscire in detrimento delle leggi della giustizia e della carità cristiana, ma
anzi debbono rendere ai sudditi più agevole la via a conoscere e a conseguire
beni non caduchi. « Noi infatti — così il Vescovo d’Ippona — non
chiamiamo fortunati alcuni imperatori cristiani per avere avuto un lungo regno,
per essere morti tranquillamente lasciando sul trono i figli, per avere domato
i nemici dello Stato, per avere saputo schivare e sgominare i sudditi ribelli.
In questa vita travagliata, di tali doni o conforti, e di altri ancora, sono
stati favoriti anche certuni che adoravano i demoni e non appartenevano quindi,
come costoro, al regno di Dio. E ciò, per effetto della misericordia divina,
affinché quelli che credevano in Dio non andassero dietro a questi beni, quasi
fossero i supremi. Invece li chiamiamo felici se comandano con giustizia, se,
ricordandosi di essere uomini, non si lasciano boriosamente inebriare dalle
lingue che li esaltano e da omaggi troppo servili, se pongono l’autorità loro
al servizio della maestà divina, massime per la dilatazione del suo culto; se
temono, amano, onorano Dio; se amano soprattutto quel regno dove non hanno a
temere rivali; se sono lenti alla vendetta, facili al perdono; se si servono
della vendetta per la necessità di governare e difendere la Repubblica e non
per saziare gli odi delle inimicizie; se concedono il perdono, non per
l’impunità della colpa, ma per la speranza della correzione; se, quando sono
costretti a punire aspramente, compensano, con la dolcezza della misericordia e
con la larghezza dei benefìci; se in loro la sensualità è tanto più raffrenata
quanto più potrebbe essere libera; se preferiscono domare le prave cupidigie,
anziché i popoli; e se tutte queste cose le fanno non per amore di una vana
gloria, ma per l’amore della felicità eterna e non trascurano di immolare al
loro vero Dio il sacrificio dell’umiltà, della misericordia e dell’orazione per
i proprî peccati. Tali sono gli Imperatori cristiani che diciamo che sono
intanto felici per la speranza su questa terra, e che lo saranno poi in realtà
quando giungerà la beatitudine eterna che aspettiamo » [54]. È un
ideale questo del principe cristiano di cui non si può trovare altro più nobile
e più perfetto; ma esso non sarà certo abbracciato ed attuato da chi confida
nella sapienza umana, spesso ottusa in sé e più spesso accecata dalle passioni;
ma solamente da colui che, formato alla dottrina del Vangelo, sa che egli
presiede alla cosa pubblica in forza di una disposizione divina, e che ciò non
può farlo nel miglior modo e con felice successo se non sia profondamente
radicato nel sentimento della giustizia, unita alla carità ed alla umiltà
interna: « I re delle genti che governano con impero e quelli che le hanno
sotto il loro dominio si fanno chiamare benefattori. Non così però per voi, ma
chi tra di voi è più grande diventi come il più piccolo, e colui che governa
sia come uno che serve » [55]. Mentre
pertanto sono in grande errore tutti quelli che ordinano le condizioni dello
Stato, senza tener conto alcuno del fine ultimo dell’uomo, né dell’uso regolato
dei beni di questa vita, sono del pari in errore molti altri i quali pensano
che le leggi per governare lo Stato e favorire i progressi del genere umano,
non possono regolarsi alla stregua dei precetti di Colui che proclamò: « Il
cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » [56]; di Cristo
Gesù, diciamo, il quale volle la sua Chiesa abbellita e fortificata con tale
costituzione magnifica ed immortale, che tante vicissitudini di cose e di
tempi, tante persecuzioni non poterono mai in tutto lo spazio di venti secoli,
né mai potranno scuoterla in avvenire sino alla fine del mondo. Perché, dunque,
quanti sono governatori di popoli, solleciti del bene e della salvezza dei loro
cittadini, dovranno impedire l’azione della Chiesa? Non dovrebbero piuttosto
offrirsi ad aiutarla, per quanto portano le circostanze? Lo Stato non ha
infatti da temere una invasione della Chiesa nei suoi propri fini e diritti;
ché anzi i cristiani sino dall’inizio rispettarono con tanta deferenza questi
diritti, secondo l’ordine del loro, stesso fondatore, che, esposti alle
vessazioni ed alla morte, potevano dire giustamente: « I prìncipi mi
perseguitarono senza ragione » [57].
Al quale proposito con la sua
solita chiarezza diceva Agostino: « In che cosa i cristiani avevano mai leso i
regni terreni? Forse che il Re loro proibì ai suoi soldati di prestare e
compiere quanto era dovuto ai re della terra? Ai Giudei anzi che stavano su ciò
architettando una calunnia contro di lui, non disse egli: Rendete a Cesare
quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio? Ed egli
stesso non pagò il tributo traendolo dalla bocca di un pesce? Non è vero che il
suo precursore non disse ai soldati di questo regno, che gli domandavano il da
farsi per la salvezza eterna; Sciogliete il cingolo, gettate via le armi,
abbandonate il vostro re, perché possiate essere soldati di Dio; ma disse
invece: Non opprimete nessuno, non calunniate nessuno, accontentatevi del
vostro stipendio? Uno dei
suoi soldati, e a lui carissimo compagno, non proclamò forse ai suoi
commilitoni e per così dire connazionali di Cristo: Ogni uomo, sia soggetto
alle maggiori autorità?
E poco appresso: Rendete a tutti quanto dovete:
a chi il tributo, il tributo; a chi la tassa, la tassa; a chi il timore, il
timore; a chi l’onore, l’onore; a nessuno siate debitori, se non dell’amore
scambievole. E ancora non ordinò che la Chiesa pregasse pure per gli stessi
re? Che offesa dunque i cristiani fecero loro? Quale debito non adempirono?
Quale ordine dei re terreni i cristiani non eseguirono? Dunque i re della terra
perseguitarono i cristiani senza ragione » [58]. Certamente
si deve richiedere ai discepoli di Cristo di ubbidire alle giuste leggi della
propria nazione, a patto che non si voglia loro comandare o proibire cosa che
la legge di Cristo proibisca o comandi, dando con ciò origine ad un dissidio
tra la Chiesa e lo Stato. Appena occorre perciò avvertire — come Ci pare di avere
sempre detto abbastanza — che dalla Chiesa non può venire nessun danno allo
Stato, ma anzi può derivarne moltissimo aiuto e utilità. Su questo punto non
occorre qui di nuovo allegare le bellissime parole del Vescovo di Ippona,
riportate già nell’ultima Nostra Enciclica «Della cristiana educazione della
gioventù » o quelle che il Nostro immediato predecessore Benedetto
XV riferì nella sua Enciclica « Pacem
Dei munus », per mostrare più chiaramente che la Chiesa sempre si studiò
di unire mediante la legge cristiana le nazioni, e promosse del pari in ogni
tempo tutto ciò che poteva stabilire fra gli uomini i benefìci della giustizia,
della carità e della pace comune, affinché esse tendessero « a una certa
unità, generatrice di prosperità e di gloria ». Inoltre, dopo aver
descritto le note proprie del governo divino, svolgendo per sommi capi punti
che gli sembravano toccare la Chiesa e lo Stato, Agostino non si ferma, ma
passa oltre ad indagare con acume sottilissimo e a contemplare come la grazia
di Dio, in un modo del tutto interno ed arcano, muove l’intelletto e la volontà
dell’uomo. E quanto potere abbia nell’anima questa grazia di Dio, egli stesso
aveva sperimentato fin da quando, a un tratto, in Milano, meravigliosamente trasformato
si accorse che dileguavano tutte le tenebre del dubbio. «Quanto dolce —
andava dicendo — mi si fece improvvisamente il mancare della soddisfazione
dei piaceri! se prima temevo di perderli, ora godevo di lasciarli. Tu li
allontanavi da me, Tu, vera e somma soavità, li allontanavi ed entravi Tu in
vece loro, più dolce di ogni piacere, ma non dolce alla carne ed al sangue; più
chiaro di ogni luce, ma più intimo di ogni segreto; più alto di ogni onore, ma
non per gli altezzosi » [59]. Frattanto
il Vescovo d’Ippona teneva per maestra e guida la Sacra Scrittura e
specialmente le lettere di Paolo apostolo (il quale pure in modo meraviglioso
era stato, un tempo, condotto a seguire Cristo), si uniformava alla dottrina
tradizionale, trasmessagli da personaggi santissimi, ed al sentimento cattolico
dei fedeli; e con sempre più ardente zelo insorgeva contro i Pelagiani che
protervamente blateravano che la Redenzione umana di Gesù Cristo mancava di
ogni efficacia; infine, illuminato dallo spirito divino, per più anni venne
investigando sopra la rovina del genere umano, seguita alla caduta dei
progenitori, sulle relazioni che corrono tra la grazia di Dio e il libero
arbitrio e sopra le questioni che chiamiamo della predestinazione. E con tanta
sottigliezza e buon esito egli investigò, che, chiamato poi e tenuto come « il
Dottore della Grazia », aiutò, ispirandoli, tutti gli altri scrittori
cattolici delle età susseguenti, e nello stesso tempo impedì che in tali
difficilissime questioni errassero o per l’uno o per l’altro estremo di questi
due punti: non insegnassero cioè, o che nell’uomo decaduto dalla pristina
integrità il libero arbitrio sia una parola senza realtà, come piacque ai primi
novatori ed ai giansenisti; ovvero che la grazia divina non si conceda
gratuitamente e non possa ogni cosa, come sognavano i Pelagiani. Ma per riportare
qui alcune pratiche considerazioni opportune ad essere meditate con gran frutto
dagli uomini del nostro tempo, è ben chiaro che i lettori di Agostino non
saranno trascinati nel perniciosissimo errore divulgatosi nel secolo XVIII,
vale a dire che le inclinazioni naturali della volontà non sono mai da temersi
né da frenarsi, perché tutte buone. Da questo falso principio originarono sia
quei metodi di educazione, riprovati non è molto nella Nostra
Enciclica «Della cristiana educazione della gioventù »; metodi che
giungono a tali estremi che, tolta ogni separazione dei sessi, non viene più
adoperata nessuna cautela contro le nascenti passioni dei fanciulli e dei
giovanetti; sia quella licenza di scrivere e leggere, di procurare e
frequentare spettacoli, nei quali si apprestano insidiosi pericoli alla
innocenza ed alla pudicizia, e, quel che è peggio, cadute rovinose: sia quella
disonesta moda di vestire, per la cui estirpazione non potranno mai lavorare
abbastanza le donne cristiane. È infatti insegnamento del nostro Dottore che
l’uomo, dopo il peccato dei progenitori, non si trova più nella integrità nella
quale fu creato, e dalla quale, mentre la godeva, era portato con facilità e
prontezza al retto operare; ma che invece, nella presente condizione della vita
mortale, è necessario che egli si opponga e comandi alle cattive passioni, da
cui è trascinato e allettato, secondo il detto dell’Apostolo: «Nelle mie
membra vedo un’altra legge, che si oppone alla legge della mia mente e mi fa
schiavo della legge del peccato, la quale è nelle mie membra » [60].
Egregiamente Agostino commentava questo punto al suo popolo: « Finché si
vive quaggiù, o fratelli, è così; così anche noi, che pure siamo vecchi in
questa battaglia, abbiamo meno nemici, ma tuttavia ne abbiamo. In certo qual
modo sono stanchi i nostri nemici anche per la nostra età, ma pure così stanchi
non cessano di turbare la quiete della vecchiaia con ogni genere di cattivi
moti. La battaglia dei giovani è più aspra; noi la conosciamo; attraverso essa
passammo … Infatti, finché portate il corpo mortale, combatte contro di voi il
peccato; ma, che non domini. Che vuol dire, non domini? Che non si deve
ubbidire ai suoi desideri. Se cominciate ad obbedire, esso domina. E che
significa obbedire, se non prestare le vostre membra quali strumenti di
iniquità al peccato? Non voler prestare le membra tue quali strumenti di
iniquità al peccato. Iddio ti diede il potere di tenere a freno le tue membra,
mediante il suo Spirito. Insorge la natura; tu raffrena le membra; che potrà
essa fare con la sua ribellione? Tu raffrena le membra: non prestare le tue
membra a strumenti di iniquità al peccato, non armare il tuo avversario contro
di te. Tieni in freno i piedi, perché non vadano a
cose illecite. Insorge la natura: tu tieni a freno le membra; trattieni le mani
da ogni delitto; trattieni gli occhi, perché non vedano malamente, trattieni le
orecchie perché non odano volentieri le parole libidinose; tieni a freno tutto
il corpo, tieni a freno i fianchi, tieni a freno le parti superiori, tieni a
freno le inferiori. Che fa la natura? Sa insorgere, vincere non sa. Insorgendo
spesso inutilmente, impara anche a non insorgere » [61].
Se per tale battaglia noi ci rivestiamo delle armi della salvezza, dopo
che avremo cominciato ad astenerci dal peccato, quietato a poco a poco l’impeto
dei nemici e snervate le loro forze, voleremo finalmente a quel regno della
pace, dove trionferemo con gaudio infinito. Se avremo vinto tra tanti ostacoli
e combattimenti, si dovrà ciò attribuire alla grazia di Dio, che dà
internamente luce alla mente e forza alla volontà; alla grazia di Dio, il
quale, avendoci creato, può ancora con i tesori della sua sapienza e potenza
infiammare l’animo nostro della carità e interamente riempirlo. Giustamente
dunque la Chiesa, che per mezzo dei Sacramenti diffonde in noi la grazia, si
chiama santa, perché non solo fa che in ogni tempo innumerevoli uomini si
uniscano a Dio con stretto vincolo di amicizia e in essa perseverino, ma molti
di più ne solleva, con la sua guida ed invitta grandezza d’animo, a perfetta
santità di vita, ad eroiche imprese. E in verità non cresce forse ogni anno il numero
dei martiri, delle vergini, dei confessori, che essa propone all’ammirazione e
all’imitazione dei suoi figli? Non sono bellissimi fiori di eroica virtù, di
castità e carità, questi che la grazia di Dio trapianta dalla terra in cielo?
Solo restano e languiscono miseramente nella nativa debolezza coloro che
resistono alle divine ispirazioni e non fanno giusto uso della loro libertà.
Parimenti la grazia di Dio non permette che noi disperiamo della salute di
nessuno, finché vive, e in tutti anzi speriamo ogni giorno maggiori gli aumenti
della carità. In essa grazia è posto il fondamento della umiltà, giacché quanto
più uno è perfetto, tanto più deve ricordare quelle parole: « Che cosa hai
che tu non abbia ricevuto? Se poi l’hai ricevuto, perché gloriarti, come se non
l’avessi ricevuto? » [62]; e non può
non mostrarsi riconoscente verso colui che « ai deboli riservò questa forza
di essere, col suo aiuto, invitti nel volere ciò che è buono e invitti nel non
volere abbandonarlo » [63]. E il
benignissimo Gesù Cristo ci stimola a chiedere i doni della sua grazia: « Chiedete
e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Infatti ognuno
che chiede, riceve; e chi cerca trova; e a chi picchia sarà aperto » [64]. Anche il dono della perseveranza « si può meritare con la preghiera
» [65]. Quindi è
che nelle chiese non cessa mai la preghiera privata e pubblica: « E quando
mai non si pregò nella Chiesa per gli infedeli e per i nemici di lei, affinché
credano? Quando mai un fedele ebbe un amico, un
parente, un coniuge infedele senza chiedere per lui al Signore una disposizione
di mente docile alla fede cristiana? E chi mai non chiese per se stesso di essere perseverante
nel Signore? » [66]. Dunque,
Venerabili Fratelli, auspice il Dottore della Grazia, pregate Iddio e con voi
preghino il clero e il popolo vostro, per quelli specialmente che sono privi
della fede cattolica o errano dalla retta via; e con ogni diligenza procurate,
inoltre, che santamente si vengano educando coloro che si mostrano idonei e
chiamati al sacerdozio, dovendo questi un giorno, ciascuno per il proprio
ufficio, divenire i dispensatori della grazia divina.
Possidio, il primo scrittore
della vita di Agostino, sin d’allora affermava che, assai più dei lettori delle
opere di lui, « avevano potuto trarre profitto coloro che poterono udirlo
parlare e vederlo presente nella Chiesa, e che in particolare conobbero il suo
contegno tra gli uomini. Perché non solo egli era uno scriba, erudito nel regno
dei cieli, che dal suo tesoro trae fuori cose nuove e cose vecchie; un
negoziante che, trovata la perla preziosa, la comperò vendendo tutte le cose
che possedeva; ma anche uno di coloro rispetto ai quali fu scritto: Così
parlate e così fate; e dei quali il Salvatore dice: Chi così avrà fatto e così
avrà insegnato agli uomini, costui sarà chiamato grande nel regno dei cieli »
[67]. Pertanto, a cominciare dalla prima di tutte le virtù, il nostro Agostino
tanto desiderò e cercò l’amore di Dio, rinunziando a tutto il resto, con tanta
costanza in sé l’accrebbe, che a ragione si dipinge con un cuore infuocato in
mano. E chi ha letto anche una sola volta le « Confessioni », potrà mai
dimenticare quel colloquio tenuto dal figlio con la madre presso la finestra
della casa di Ostia? La descrizione di quella scena non riesce tanto colorita
al vivo e così tenera, da parerci di vedere fissi nella contemplazione delle
cose celesti Agostino e Monica? « Soli ci intrattenevamo insieme — egli scrive —
assai dolcemente; e dimenticando il passato, guardandoci innanzi, venivamo tra
noi cercando alla presenza della Verità, che sei tu, quale debba essere la vita
eterna dei Santi, che mai occhio vide, né orecchio udì, né mente d’uomo
comprese. Ma con la bocca aperta del cuore agognavamo abbeverarci alle tue
superne acque, della fontana di vita che è in te perché, da essa irrorati,
secondo la nostra capacità potessimo in qualche modo afferrare col pensiero una
così grande cosa … E così parlando, e a
quella vita agognando, l’afferrammo un tantino con tutto l’impeto del cuore, e
sospirammo e quivi lasciammo come prigioniere le primizie dello spirito e
ritornammo al suono della nostra voce dove la parola ha inizio e fine. Ma che
cosa mai è simile al tuo Verbo, Signore nostro, che in sé sussiste e mai
invecchia e tutto rinnova? » [68]. Né si dovranno dire insoliti nella sua vita tali rapimenti della
mente e del cuore. Poiché ad ogni istante di tempo libero dai doveri e dalle
fatiche quotidiane, egli meditava le Sacre Scritture, a lui così note, per
coglierne diletto e luce di verità; con il pensiero e con l’affetto s’innalzava
a volo sublime dalle opere di Dio e dai misteri dell’infinito suo amore verso di
noi, a grado a grado, sino alle stesse divine perfezioni e in esse quasi si
immergeva, quanto a lui era dato per l’abbondanza della grazia soprannaturale.
« E spesso torno a far questo,
— così pare che egli ci parli, come in confidenza — questo mi delizia, e quando
posso rilassarmi dalle mie necessarie occupazioni, in questo diletto mi
rifugio. Né in tutti questi oggetti, che io percorro consultando te, trovo
luogo sicuro all’anima mia se non in te, dove si raccolgono le cose mie
disperse e nulla di me si diparte da te. E talvolta mi fai entrare in un
affetto molto insolito, dentro ad una non so quale dolcezza, che se in me
toccasse il colmo, non so qual cosa sarebbe, ma certo non sarebbe più questa
vita » [69]. Perciò
esclamava: «Tardi io ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova!
tardi io ti ho amato » [70]. E quanto
affettuosamente contemplava la vita di Cristo, la cui somiglianza si studiava
di ritrarre ogni giorno più perfetta in sé, l’amore ripagando con amore, non
altrimenti da quello che proprio egli andava, con il consiglio, inculcando alle
vergini: « Si configga a voi interamente nel cuore, chi per voi fu confitto
in croce! » [71]. Di questo
amore di Dio ardendo sempre più vivacemente, fece incredibili progressi in
tutte le altre virtù.
Né si può non ammirare come un
uomo tale — che per la straordinaria eccellenza d’ingegno e di santità era da
tutti venerato, esaltato, consultato ed ascoltato — fosse tuttavia, negli
scritti destinati al pubblico e nelle sue lettere, intento sopra ogni cosa a
procurare che le lodi tributategli andassero all’autore di ogni bene, cioè a
colui al quale soltanto si dovevano, e agli altri facesse animo e, salva la
verità, li encomiasse. Inoltre usava il massimo ossequio verso i suoi colleghi
nell’episcopato, segnatamente verso i più insigni che l’avevano preceduto, come
Cipriano e Gregorio Nazianzeno, Ilario e Giovanni Crisostomo, come Ambrogio,
suo maestro nella fede, che egli venerava qual padre e di cui soleva spesso
ricordare gl’insegnamenti e gli esempi. Ma segnatamente in lui rifulse, come
inseparabile dall’amor di Dio, lo zelo delle anime, di quelle anime in ispecie
che egli aveva da reggere per debito dell’ufficio pastorale.
Da quando infatti, così ispirando
Iddio, e per la fiducia del vescovo Valerio e la scelta del popolo, fu prima
iniziato al sacerdozio e poi sollevato alla cattedra d’Ippona, egli pose ogni
studio nel condurre il gregge alla felicità celeste, sia col nutrirlo della
sana dottrina, sia col tutelarlo dagli assalti dei lupi. Accoppiando dunque
alla fortezza la carità verso gli erranti, combatté le eresie, mise in guardia
il popolo contro gl’inganni usati in quel tempo dai Manichei, dai Donatisti,
dai Pelagiani, dagli Ariani; e questi stessi egli confutò in modo che non solo
ne infrenò la diffusione delle false dottrine e ricuperò le anime da essi
traviate, ma anche li convertì alla fede cattolica. Pertanto egli stava sempre
pronto a disputare anche in pubblico, mentre aveva ogni fiducia nel divino
aiuto, nella forza e nella virtù insite nella verità, e nella fermezza del
popolo; e qualora gli venissero recati scritti di eretici, senza por tempo in
mezzo li confutava l’uno dopo l’altro, non lasciandosi infastidire o staccare
né dalla scipitezza delle opinioni, né dai cavilli, né dall’ostinatezza e dalle
ingiurie degli avversarii. Nondimeno, benché così alacremente combattesse per
la verità, non cessava mai d’implorare da Dio la correzione di questi nemici,
che egli trattava con benevolenza e carità cristiana; e dai suoi scritti stessi
si vede con quanta modestia d’animo e vigore di persuasione parlava loro: « Infieriscano
contro di voi — diceva loro — quelli che non sanno con quale fatica si scopra
il vero e con quanta difficoltà si schivino gli errori. Infieriscano contro di voi quelli che non sanno quanto sia raro ed arduo
l’innalzarsi sopra le fantasie della carne nella serenità di una mente pia …
Infieriscano contro di voi anche coloro che non furono mai sedotti da un errore
come quello da cui vedono sedotti voi. Io, invece, che dopo un lungo e fiero
travaglio finalmente potei venire a conoscere che cosa sia quella schietta
verità che si percepisce senza la mescolanza di vane favole …; io, che
finalmente tutte quelle fantasie, dalle quali voi siete per lunga consuetudine
avviluppati e stretti, le cercai curiosamente, le udii attentamente, le
credetti sconsigliatamente e con ardore le persuasi a quanti potei, e contro
altri le difesi pertinacemente ed animosamente, io davvero non posso infierire
contro di voi, ma vi debbo ora sopportare, come allora sopportai me medesimo, e
trattarvi con altrettanta pazienza quanta me ne usarono i prossimi miei, nel
tempo in cui rabbioso e cieco andavo errando dietro i vostri dogmi » [72].
Il Vescovo d’Ippona pertanto, con il suo amore per la religione, con
l’assidua operosità e la benignità di animo, come poteva rimanere deluso e
senza buon successo? E così, i
Manichei venivano tratti all’ovile di Cristo, il dissidio o scisma di Donato
veniva a cessare, e i Pelagiani erano completamente sgominati, in modo che,
morto Agostino, Possidio poteva scrivere di lui: «Quel memorando uomo,
membro principale del corpo del Signore, era sempre sollecito e quanto mai
vigilante per il bene della Chiesa universale. E gli fu concesso da Dio di
poter godere anche in questa vita del frutto delle sue fatiche, dapprima con
l’unione e la pace perfetta nella Chiesa e nel territorio d’Ippona, a cui egli
massimamente soprintendeva; poi, vedendo come in altre parti dell’Africa, per
la sua stessa cura e per quella dei sacerdoti che egli vi aveva assegnati, la
Chiesa del Signore aveva felicemente germogliato e s’era moltiplicata e
rallegrandosi che quei Manichei, Donatisti e Pelagianisti e Pagani erano finiti
per buona parte e s’erano aggregati alla Chiesa di Dio. Andava lieto ed
esultante dei progressi da lui favoriti e del fervore di tutti i buoni;
tollerava con santo e pietoso compatimento le mancanze disciplinari dei
fratelli e gemeva sulle iniquità dei cattivi, sia di quelli che erano dentro la
Chiesa, sia di quelli che ne erano fuori, godendo sempre, come dissi, degli
acquisti che il Signore faceva, e dolendosi dei danni » [73]. Se nel
trattare i grandi affari dell’Africa e anche della Chiesa universale fu d’animo
forte ed invitto, verso il suo gregge fu, più che altri mai, padre premuroso e
benigno. Era solito predicare al popolo assai spesso, o commentando testi per
lo più desunti dai Salmi, dal Vangelo di San Giovanni, dalle Lettere di San
Paolo, in una forma piana e adatta all’intendimento della gente più umile e
semplice, o riprendendo col più felice esito gli abusi e i vizi che si fossero
insinuati fra i cittadini d’Ippona, e molto si affaticava, e a lungo, non solo
per riconciliare a Dio i peccatori, soccorrere i poveri e intercedere per i
colpevoli, ma anche per comporre le liti e le contese che accadessero tra i
fedeli in cose profane; e benché si lamentasse della distrazione e dissipazione
che ciò gli costava, tuttavia al disgusto per le cose del secolo fece andare
innanzi l’esercizio della carità episcopale. E tale carità e grandezza di animo
sommamente rifulse nell’estremo frangente in cui si trovò quando, dai Vandali
che devastavano l’Africa, nessun’offesa fu risparmiata alla dignità sacerdotale
e ai luoghi sacri. Esitando alcuni Vescovi e sacerdoti sulla condotta che
dovevano tenere fra quelle tante e così gravi calamità, il santo vecchio,
interrogato da uno di essi, rispose chiaramente che a nessun sacerdote era
lecito disertare il posto, checché fosse per avvenire, poiché i fedeli non
potevano rimanere privi del sacro ministero: « Come non pensare — diceva
— quando si giunge a questa estrema gravità di pericoli, né vi è alcuna via
di scampo, che grande accorrere suole farsi nella chiesa da gente dell’uno e
dell’altro sesso e d’ogni età, e chi domanda il battesimo, chi la
riconciliazione, chi anche l’applicazione della penitenza, e tutti chiedono
conforto e celebrazione e amministrazione dei Sacramenti? Se vi mancano i sacri
ministri, quale immensa perdita ne segue per coloro che partono da questo
secolo o non rigenerati o non assolti! e quanto grave lutto per i loro
congiunti e amici che non li avranno con sé nella pace della vita eterna! Quanti
gemiti da tutti, e da parte di alcuni quali bestemmie si leverebbero per
l’assenza dei sacri ministri e dei sacri ministeri! Vedi che cosa fa la paura
dei mali temporali e che triste acquisto con essa invece si fa dei mali eterni!
Quando invece si trovano al loro posto i ministri, si reca a tutti il soccorso
con le forze che Dio ad essi provvede; quelli sono battezzati, questi sono
riconciliati, nessuno resta privo della comunione del Corpo di Cristo; tutti
sono consolati, edificati, esortati a pregare Dio, il quale è in grado di
sventare tutti i mali che si temono; e tutti si trovano disposti ad ogni
evento, in modo che se da essi questo calice non può passare, s’uniformino alla
volontà di colui che non può volere niente di male » [74].
E concludeva in questa forma: « Chi
poi fugge, sì che al gregge di Cristo vengano a mancare gli alimenti di cui
vive spiritualmente, è un mercenario che vede venire il lupo e scappa perché
non gli importa delle pecore » [75]. Per il
resto, Agostino confermò gli ammonimenti con l’esempio; perché assediata dai
barbari la città dov’era la sua sede episcopale, il magnanimo pastore vi rimase
col suo popolo e ivi rese l’anima a Dio.
Ed ora, per aggiungere ciò che un
più compiuto elogio di Agostino sembra ancora richiedere, diremo, come la
storia attesta, che il Santo Dottore della Chiesa, il quale a Milano aveva
visto « fuori delle mura della città, sostenuto e nutrito da Ambrogio un
albergo di Santi » [76], e poco
dopo la morte di sua madre, era venuto a « conoscere in Roma parecchi
monasteri … né solo di uomini, ma anche di donne » [77], appena
approdò sui lidi d’Africa, concepì il pensiero di promuovere le anime alla
perfezione e santità della vita nello stato religioso, e fondò in un suo podere
un cenobio, ove « dopo avere allontanato da sé tutte le cure del secolo,
postavi dimora per quasi un triennio insieme con quelli che gli erano
associati, viveva a Dio nei digiuni, nelle orazioni e buone opere, meditando
giorno e notte la legge di Dio » [78]. Promosso
poi al sacerdozio, fondò subito ad Ippona nelle vicinanze della chiesa un altro
cenobio « e cominciò a vivere coi servi di Dio secondo il modo e la regola
stabilita ai tempi degli Apostoli, in quanto soprattutto nessuno doveva
possedere cosa di proprio in quella comunità, ma tutto era comune e a ciascuno
si distribuiva secondo il bisogno » [79].
Sublimato alla dignità di
Vescovo, non volendo restare privo dei benefìci della vita comune e volendo
d’altra parte lasciar aperto il monastero a tutti i visitatori e ospiti del
Vescovo d’Ippona, egli istituì nella stessa casa episcopale un cenobio di
chierici con questa regola: che, rinunziati i beni di famiglia, vivessero in
comunità lungi dalle seduzioni del mondo e da ogni suo lusso ma con un tenore
di vita non troppo austero né difficile, adempiendo nello stesso tempo ai
doveri di carità verso Dio e verso il prossimo. Alle religiose poi che,
governate da sua sorella, abitavano non molto distante, diede una regola
meravigliosa, piena di saggezza e di moderazione, secondo la quale oggidì si
reggono molte famiglie religiose dell’uno e dell’altro sesso, e non solo quelle
che sono chiamate Agostiniane, ma altre ancora che dal proprio Fondatore hanno
ricevuto la regola stessa accresciuta con particolari costituzioni. Con i semi
gettati in patria di una siffatta professione di vita perfetta, conforme ai
consigli evangelici, egli non solo si rese benemerito dell’Africa cristiana ma
di tutta la Chiesa, alla quale vennero da una siffatta milizia, col volgere
degli anni e anche oggidì, tanto vantaggio ed incremento. Così, vivente ancora
Sant’Agostino, da questa opera insigne erano già derivati consolantissimi
frutti. Possidio narra che per concessione di lui, quale Padre e legislatore
pregatone da ogni parte, un gran numero di religiosi si era già sparso per ogni
dove per fondarvi nuovi monasteri e per aiutare con la dottrina e l’esempio
della santità le chiese dell’Africa, recandovi dappertutto la fiamma attinta
dal centro. Di questa magnifica fioritura di vita religiosa, che tanto
pienamente corrispondeva ai suoi desideri, poté ben consolarsi Agostino, come
quando scriveva: « Io, che scrivo queste cose, ho amato con ardore quella
perfezione di cui il Signore ha parlato quando disse al ricco giovinetto: Va,
vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro in cielo;
vieni e seguimi; così ardentemente l’amai, e non per le mie forze, ma per
l’aiuto della sua grazia ho fatto così. Che se io non fui ricco, ciò non mi
diminuisce il merito; perché gli stessi apostoli che primi fecero questo non
furono ricchi; chi lascia ciò che ha e ciò che desidera di avere, lascia il
mondo intero. Quanto poi io abbia profittato in questa via della perfezione, lo
so più io di qualsiasi altro uomo, ma più lo sa Iddio di me. E allo stesso
proposito di vita, con quanta forza io posso, esorto gli altri, e nel nome del
Signore ho compagni quelli che per il mio ministero vi sono stati indotti »
[80]. Così
vorremmo oggi che ogni parte della terra sorgessero molti, a somiglianza del
santo Dottore, « seminatori di casto consiglio », i quali con prudenza
pure, ma con fortezza e perseveranza si facessero promotori della vita
religiosa e sacerdotale, abbracciata beninteso per vocazione divina, affinché
più efficacemente si venisse a impedire che lo spirito cristiano vada
indebolendo, e perisca a poco a poco l’integrità dei costumi.
Abbiamo accennato,
Venerabili Fratelli, alle imprese e benemerenze di un Santo che per forza di
ingegno acutissimo, per copia e altezza di scienza, per santità tanto sublime,
per invitta difesa della verità cattolica, non trova quasi altri, o certo
pochissimi, che gli si possano paragonare di quanti fiorirono finora dal
principio del genere umano. E sopra abbiamo citato parecchi suoi encomiatori;
ma quanto cordialmente e quanto bene gli scriveva San Girolamo come a suo
contemporaneo e familiarissimo: « Io sono ben risoluto di amarti, di
accoglierti, di onorarti, ammirarti e difendere i tuoi detti come fossero miei
» [81]. E di nuovo
altra volta: «Orsù, coraggio, tu sei celebrato nel mondo; i cattolici ti
venerano e onorano come restauratore dell’antica fede e, ciò che è segno di
gloria maggiore, tutti gli eretici ti detestano, e con pari odio abbominano
anche me, quasi per uccidere col desiderio quelli che non possono con la spada
»[82].
A noi pertanto, Venerabili
Fratelli, sta sommamente a cuore che in questo quindicesimo centenario dalla
morte del Santo, che si compirà fra non molto, come Noi stessi l’abbiamo molto
volentieri ricordato in questa Enciclica, così voi lo commemoriate in mezzo al
vostro popolo, in modo che tutti gli facciano onore, tutti si sforzino di
imitarlo, tutti ringrazino Iddio dei benefizi che per via di un così grande
Dottore pervennero alla Chiesa. Noi ben sappiamo quanto la insigne figliuolanza
di Agostino andrà innanzi con l’esempio, come è giusto, mentre pure gode di
conservare religiosamente a Pavia, nella chiesa di San Pietro in Ciel d’oro, le
ceneri del suo Padre e Legislatore, restituito a lei per benignità del nostro
antecessore, Leone
XIII, di felice memoria. Ci auguriamo che colà numerosissimi accorrano da
ogni parte i fedeli per venerare il sacro corpo di lui e guadagnare
l’indulgenza da Noi concessa. Ma non possiamo qui passare in silenzio quale e
quanta speranza e attesa nutriamo in cuore, che il Congresso Internazionale
Eucaristico, il quale si terrà prossimamente a Cartagine, riesca ad onore di
Agostino, oltre che di trionfo a Cristo Gesù nascosto sotto le specie
Eucaristiche. Siccome infatti si tiene il Congresso in quella città, dove un
tempo il nostro santo Dottore vinse gli eretici e rassodò nella fede i
cristiani; in quell’Africa latina le cui antiche glorie non potranno mai essere
dimenticate in nessuna età, e meno che altre, quella di avere dato alla Chiesa
questo luminare splendidissimo di sapienza; non molto lontano da Ippona a cui
toccò la felice sorte di godere per tanto tempo dell’esempio di virtù e delle
cure pastorali di lui, non può certo accadere che la memoria del santo Dottore
e la dottrina di lui intorno all’augusto Sacramento dell’Altare — che qui
abbiamo omessa siccome già nota in buona parte a moltissimi dalla stessa
liturgia della Chiesa — non siano presenti agli animi, anzi quasi davanti agli
occhi di tutti i congressisti. Infine esortiamo tutti i fedeli cristiani, e
quelli principalmente che si raduneranno a Cartagine, che invochino
l’intercessione di Agostino presso la bontà divina, perché conceda in avvenire
giorni più felici alla Chiesa, e che quanti sono dispersi in quelle immense
regioni dell’Africa, indigeni e stranieri o privi ancora della verità cattolica
o dissidenti da Noi, accolgano la luce della dottrina evangelica loro recata
dai nostri missionari, e si affrettino a rifugiarsi in seno alla Chiesa, Madre
amantissima.
Delle celesti grazie, intanto,
sia mediatrice e al tempo stesso testimonianza della Nostra paterna benevolenza
l’Apostolica Benedizione che a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il clero e
popolo vostro impartiamo con ogni affetto nel Signore.
Dato a Roma, presso San Pietro,
il 20 aprile, festa della Pasqua di Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo,
dell’anno 1930, nono del Nostro Pontificato.
PIUS PP.
XI
[1] Innocentius Aurelio
et Augustino episcopis: epist. 184 inter augustinianas.
[2] Innocentius
Aurelio, Alypio, Augustino, Evodio et Possidio episcopis: epist. 183, n.
1 inter augustinianas.
[3] Caelestinus
Venerio, Marino, Leontio, Auxonio, Arcadio, Filtanio et ceteris Galliarum
episcopis: epist. 21, c. 2, n. 3.
[4]Gelasius universis
episcopis per Picenum, circa fin.
[5] Hormisdas, epist.
70, ad Possessorem episcopum.
[6] Iohannes II, epist.
olim 3, ad quosdam Senatores.
[7] Registrum
epistolarum, lib. X, epist. 37, ad Innocentium Africae praefectum.
[8] Hadrianus I, epist.
83, episcopis per universam Spaniam commorantibus; cf. epist. ad Carolum
regem de imaginibus, passim.
[9] Encycl. Aeterni
Patris.
[10] Ps. LXVII,
v. 36.
[11] Confess.,
lib. III, c. 4, n. 8.
[12] Confess.,
lib. II, c. 2, n. 4.
[13] Confess.,
lib. III, c. 12, n. 21.
[14] De dono
perseverantiae, c. 20, n. 53.
[15] Confess.,
lib. VI, c. 5, n. 7.
[16] Confess.,
lib. VII, c. 7, n. 11.
[17] Confess.,
lib. VIII, c. 12, n. 29.
[18] Confess.,
lib. I, c. 1, n. 1.
[19] De civitate
Dei, lib. XIX, c. 13, n. 2.
[27] Ibidem.
[28] Psalmus contra
partem Donati.
[29] Contra epist.
Manichaei quam vocant fundamenti, c. 4, n. 5.
[30] Innocentius
Silvano, Valentino et ceteris qui in Milevitana synodo interfuerunt, epist.
182, n. 2 inter augustinianas.
[31] Serm. 131,
c. 10, n. 10.
[32] Epist. 190,
ad Optatum, c. 6, n. 23.
[34] Isai.,
VII, 9 (sec. LXX).
[35] Mal., II,
7.
[44] Ibidem; cf. Breviarium
causae Nestorianorum et Eutychianorum, c. 5.
[45] De civitate
Dei, lib. XIV, c. 28.
[48] Sap.,
VIII, 1.
[49] De civitate
Dei, lib. V, c. 15.
[50] Ibidem, c.
17, n. 2.
[51] Ibidem, c.
25.
[52] Ibidem, c.
26.
[53] De civitate
Dei, lib. XV, c. 26.
[54] De civitate
Dei, lib. V, c. 24.
[55] Luc.,
XXII, 25-26.
[61] Serm. 128,
c. 9-10, n. 11-12.
[62] I Cor.,
IV, 7.
[63] De correptione
et gratia, c. 12, n. 38.
[64] Matth.,
VII, 7-8.
[65] De dono
perseverantiae, c. 6, n. 10.
[66] Ibidem, c.
23, n. 63.
[67] Vita S.
Augustini, c. 31.
[68] Confesss.,
lib. IX, c. 10, nn. 23-24.
[69] Confess.,
lib. X, c. 40, n. 65.
[70] Ibidem, c.
27, n. 38.
[71] De sancta
virginitate, c. 55, n. 56.
[72] Contra epist.
Manichaei quam vocant fundamenti, c. 2-3, nn. 2-3.
[73] Vita S. Augustini,
c. 18.
[74] Epist. 228,
n. 8.
[75] Epist. 228,
n. 14.
[76] Confess.,
lib. VIII, c. 6, n. 15.
[77] De moribus
Ecclesiae Catholicae et de moribus Manichaeorum, lib. I, c. 33, n. 70.
[78] Possidius, Vita
S. Augustini, c. 3.
[79] Ibidem, c. 5.
[80] Epist. 157,
c. 4, n. 39.
[81] Epist. 172,
n. 1 inter augustinianas.
[82] Epist. 195,
inter augustinianas.
© Copyright - Libreria Editrice Vaticana
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